Recensioni - Cultura e musica

" L'opera è un sogno e deve far sognare": intervista a Luciana Serra

In occasione di una delle frequenti masterclass che tiene a Desenzano del Garda, organizzate dall'associazione La bottega della lirica, abbiamo incontrato il grande soprano di coloritura che ci ha raccontato della sua carriera e della sua attività di insegnante di canto. 

Lei, insieme ad altri grandi quali ad esempio Leo Nucci, Renato Bruson, Renata Scotto, rappresenta la grande tradizione di canto italiana che però sembra si sta un po’ perdendo.

Infatti. Purtroppo in questo momento in Italia sembra che si seguano più le mode che la tecnica. Ognuno inventa un modo nuovo di cantare ed i ragazzi che intraprendono lo studio del canto devono spesso assoggettarsi a questi metodi, il più delle volte privi di fondamento. Certo può cambiare il gusto nel canto, come peraltro è successo -adesso infatti sentiamo registrazione degli anni ’30-‘40 che ci appaiono inattuali- ma un conto è il modo di interpretare, di porgere i suoni, un altro è la tecnica che rimane sempre quella. Quella stessa tecnica che permetteva ai cantanti di cantare per trent’anni. Adesso invece dopo pochi anni i giovani o cambiano repertorio o spariscono del tutto. Questo è un peccato. Ma cantare è anche una questione di intelligenza e non solo di business.

Infatti, per preservare la voce, fondamentale è la scelta del repertorio.

Purtroppo sotto questo aspetto adesso c’è molta confusione, anche perché a volte manca l’esperienza nel saper indirizzare i giovani cantanti. Ad esempio quando ho iniziato io c’erano i cosiddetti impresari, che dovevano allestire spettacoli splendidi perché altrimenti non avrebbero ricevuto i soldi dai palchettisti. Tra questi mi piace ricordare la signora Regilda Martini, che era una vera e propria leonessa. Ed infatti cantanti come Leo Nucci, Lucia Valentini Terrani, Katia Ricciarelli ed io siamo tutti usciti da lì. Lei sentiva la voce ed intuiva quali ruoli erano più adatti. Adesso queste figure, con questa cultura musicale sono molto più rare, e quindi i ragazzi, pur di cantare, accettano a volte di interpretare ruoli non adatti. Quindi cominciano la cordite, l’abbassamento di voce, la corda un po’ allentata, e questo compromette lo strumento.

Da alcuni anni lei si dedica all’insegnamento e, tra i suoi vari impegni, è docente all’Accademia di perfezionamento del Teatro Alla Scala.  Cosa ci può dire dei ragazzi che vengono da lei

I ragazzi fanno veramente tanti sacrifici per studiare ed io per loro ho grandissimo rispetto. La mia maggior soddisfazione è nel riuscire a farli cantare, nonostante spesso arrivino con le voci distrutte. Infatti a far cantare le voci già pronte sono capaci tutti -anzi, magari riescono anche a distruggerle- mentre iniziare un percorso con un ragazzo in cui si intuisce che c’è un talento e riuscire farlo cantare, richiede tempo, perché correggere gli errori è molto più difficile che impostare un materiale vergine. Tuttavia, con un po’ di pazienza, il risultato si ottiene. Infatti i ragazzi che io ho formato, pur non calcando tutti i grandi palcoscenici internazionali, fanno un loro percorso: tengono regolarmente concerti e vengono scritturati nelle produzioni liriche. Per questo ci sono dei periodi in cui ho solo allievi all’inizio del loro percorso. Anche se i ragazzi che sono già in carriera ogni tanto mi dicono scherzando “Signora vengo a fare il tagliando”, per controllare se è tutto in ordine. Perché, se uno ha talento ed una bella voce, per riuscire ci vuol poco, molto più difficile è mantenere.

Lei è stata una delle protagoniste sia della Rossini che della Donizetti Renaissance due vere e proprie rivoluzioni nell’ambito del repertorio lirico.

È stato un periodo molto importante, che ha significato molto a livello di riscoperta del repertorio, ed infatti anche in questo periodo sto preparando dei cantanti per la nuova edizione di Pietro il grande al Festival Donizetti di Bergamo. Il problema è che già si fa fatica a trovare le voci. Penso ad esempio a opere quali Il Furioso dell’isola di Santo Domingo di Donizetti, che io ho cantato l’ultima volta a Bergamo con Bruson, diretti da Gustav Kuhn, oppure L’occasione fa il ladro di Rossini, o anche, per restare nell’ambito del soprano di coloritura, a Mignon di Ambroise Thomas che ho cantato a Firenze con Lucia Valentini Terrani e Cesare Siepi. Sono titoli purtroppo pressoché scomparsi dal repertorio.

Tra i tanti ruoli che ha rivestito, uno di quelli a cui il suo nome è più legato è quello della Regina della notte nello Zauberflöte di Mozart. Come è nato questo personaggio?

Ero ancora studente a Teheran e durante un periodo in Italia ero stata invitata a casa del maestro Alberto Erede a Torino e, parlando di questo ruolo, mi ricordo una sua frase: “La regina della notte avrebbe dovuto farla la Callas, ma aveva paura del Fa”. Questo perché secondo lui ci voleva una voce “importante”. Io, che avevo una vocalità diversa pensai che potevo risolvere il personaggio in un altro modo, cioè lavorando sull’interpretazione. Prima la incisi in disco e poi la debuttai a Torino, in un allestimento particolare nel quale io mi trovavo all’interno di una vetrina nella quale mi riflettevo e non vedevo il direttore, per cui dovettero illuminarlo con un faro apposta. Lo spettacolo andò molto bene ma in quella circostanza si può dire che mi limitai a cantarla. Poi andai a Chicago, ed il regista di quella produzione, August Everding, nella cui interpretazione la regina veniva concepita come una sorta di grosso ragno, mi diede l’intuizione per creare il personaggio dandogli il giusto peso. Nell’opera infatti si cita continuamente Die nächtlich Königin; Die grosse Königin; Mene Mutter. Tutti ne parlano, ma non si vede quasi mai, ed infatti in Germania era un ruolo che davano alle comprimarie. Invece il mio obiettivo è sempre stato fare in modo che questa figura, nonostante compaia solo per due arie, aleggiasse per tutta l’opera. E da lì è nato il personaggio.

Ed infatti anche adesso le arie della Regina della notte sono tra i momenti più attesi dell’opera. Un altro titolo che l’ha vista protagonista, tra le pochissime, oltre a Joan Sutherland, ad interpretare tutti e quattro i ruoli femminili ne Les contes d’Hoffmann di Offenbach.

È vero, e non a caso il direttore di quella produzione era proprio Richard Bonynge, che decise di non fare la versione di Oeser e scelse la versione originale di Offenbach. Trattandosi però di un’opera incompiuta, questa versione si prestava a molte interpretazioni con veri e propri spostamenti dei singoli numeri musicali all’interno della partitura. L’unica libertà che si prese Bonynge, secondo me azzeccatissima, fu quella di spostare il settimino dell’atto di Giulietta in fondo all’opera, facendolo diventare quartetto, così l’opera finisce in gloria e così anche canta Stella. Sicuramente una scelta molto più efficace rispetto alla conclusione con l’epilogo. E lo spettacolo che debuttò a Verona e fu ripreso a Genova era splendido anche dal punto di vista della regia, che era firmata da Hugo de Ana. Ed io ero felicissima di cantare, non vedevo l’ora di entrare in scena.

Parlando di regie, lei cosa ne pensa delle regie moderne

Le regie moderne Possono andare bene per le opere moderne. L’opera classica secondo me ha bisogno del suo contorno, anche dal punto di vista visivo. Purtroppo però ci sono registi ed anche direttori artistici che, per fare notizia, cercano soluzioni strane, che spesso al pubblico non piacciono. Quando invece, per fare notizia, basterebbe avere un buon cast con delle belle voci. Mi ricordo una produzione del Turco in Italia a Genova quando ancora la stagione si faceva al teatro Margherita, con la gente in platea che, dopo una serie di produzioni particolarmente innovative mormorava “Almeno stasera speriamo bene”. Poi si aprì il sipario: scene di Lele Luzzati e costumi di Santuzza Calì e ci fu un applauso a scena aperta rivolto alla scenografia. Qualche anno dopo invece facemmo i Capuleti e Montecchi al Carlo Felice in forma di concerto perché non c’erano abbastanza fondi per produrre le scene. Alcuni del pubblico commentarono: “Meglio, così almeno ci immaginiamo quello che piace a noi”. In quel caso ci sarebbe voluto uno come Beppe de Tomasi che aveva un gran gusto e, prendendo pezzi da varie scenografie, era in grado di allestire spettacoli meravigliosi. Adesso purtroppo manca questo tipo di regista. Quando Invece ho fatto regie non completamente moderne ma stilizzate con dei costumi storici e con degli elementi scenici neutri tipo Roméo et Juliette a Palermo con la regia di Alberto Fassini, quel tipo di impostazione non disturbava, l’idea era funzionale. È quando ad esempio mettono Aida in minigonna, quello mi dà fastidio: sembra quasi un voler dissacrare l’opera. Perché in realtà l’opera è un sogno e deve far sognare.