Recensioni - Cultura e musica

1984: una musica in grigio

Interessante ma non del tutto convincente la partitura che Lorin Maazel ha tratto dal romanzo di George Orwell

Lorin Maazel appartiene a quella categoria di direttori d’orchestra che occasionalmente si dedicano anche alla composizione, ed infatti questa sua seconda attività è iniziata in tempi abbastanza recenti, dopo alcuni decenni dedicati esclusivamente alla direzione.


Ripreso alla Scala in prima italiana dopo aver debuttato nel 2005 al Covent Garden, 1984, tratto dall’omonimo romanzo di George Orwell, ha segnato il suo debutto in campo operistico, giungendo dopo una serie di composizioni di natura prettamente orchestrale che lo hanno impegnato negli ultimi lustri.

Per questo nuovo lavoro Maazel si è avvalso della collaborazione di Thomas Meehan e J. D. McClatchy, che sono riusciti a ridurre in maniera estremamente efficace il romanzo originale, realizzando un libretto in cui sia la componente politica, relativa alla figura del Grande Fratello,  che quella sentimentale tra Winston e Julia si mantengono in perfetto equilibrio.

Dal punto di vista musicale si sente come il Maazel compositore debba molto al Maazel direttore: all’interno di una scrittura basata su ampi recitativi di matrice prettamente atonale, si innestano parentesi melodiche che rimandano ad autori otto-novecenteschi (Wagner, Puccini, Debussy, Bernstein, tanto per citarne alcuni). Il risultato è quindi quello di una partitura che, nonostante alcuni momenti indiscutibilmente riusciti e coinvolgenti, quali ad esempio le parti corali del primo atto ed il bellissimo tema d’amore del secondo atto, fatica a trovare uno stile che la caratterizzi e le conferisca una sua personalità.  Forse questa sensazione trova in parte giustificazione anche dal fatto che alla testa dell’orchestra del Teatro alla Scala vi fosse lo stesso autore. È infatti risaputo come lo stile direttoriale di Maazel tenda spesso a scivolare verso un certo grigiore, pertanto è lecito supporre che una sensazione di irrisolutezza e di appiattimento che spesso si riscontrava, in particolare nelle scene più crude e “politiche”, derivasse anche da indicazioni nate in fase di concertazione.

Decisamente in parte invece i cantanti, dall’ottimo Ian Greenlaw nel ruolo di Winston all’efficace Julia di Nancy Gustafson, che aveva peraltro tenuto il ruolo a battesimo a Londra nel 2005. Da segnalare inoltre Jeremy Whyte (Parsons), Peter Tantsits (Syme) e Richard Margison (O’Brien) e l’inquietante voce registrata di Jeremy Irons nel ruolo del Grande Fratello.

Discorso a parte merita la straordinaria regia di Robert Lepage. L’artista canadese, in perfetta simbiosi con lo scenografo Carl Fillion, la costumista Yasmina Giguère e il lighting designer Michel Beaulieu ha creato uno spettacolo ricchissimo di idee e di momenti di grande suggestione, che hanno contribuito a mantenere viva la tensione per tutte le tre ore di durata dell’opera. Innumerevoli sarebbero i passaggi da citare, ma sicuramente il punto più riuscito è la scena della tortura del terzo atto: realizzata con tale abilità che paradossalmente ho avuto la sensazione non di assistere alla regia di un’opera ma al contrario ad una rappresentazione in cui la musica fungeva solo da efficace commento sonoro.

Il pubblico della Scala, nonostante la scarsa abitudine a proposte di questo tipo e la discreta percentuale di abbandoni ad ogni intervallo, ha dimostrato un certo apprezzamento, tributando applausi convinti a tutto il cast.

 

Davide Cornacchione 8 maggio 2008