Nel cortile di Palazzo Te l'ensemble Sentieri Selvaggi in una trascinante esecuzione di Music for 18 musicians
A Mantova, in quello che è il progenitore italiano dei Festival della parola, il concerto dello scorso 7 settembre suonava quasi come un gioioso ossimoro, una felice contraddizione. Di fronte ad un pubblico che assiepava ogni angolo del Cortile d’Onore di Palazzo Te, mentre nei mille luoghi della città virgiliana il Festivaletteratura consumava le sue ultime ore in frenetici incontri con l’autore, la musica di Steve Reich ci invitava tutti a pensare o, forse, a ripensare, alla siderale differenza tra sentire e ascoltare.
A fare silenzio per essere più vicini al mistero, a tendere l’orecchio sulle viscere di una scatola sonora in cui sembra ribollire l’anima del mondo, ad abbandonarci al flusso di un’energia che, volenti o nolenti, finisce (e finiva) per catturarci; con la sensuale, morbida avvolgenza di un abbraccio, o con l’impetuosa forza di un’alluvione. Una forza cinetica pervasiva, dilagante, che prima bisbiglia poi scuote le oscurità della terra e si fa onda sonora, ritmo panico, eco pronta a dilatarsi e a disperdersi, a scomparire e a ritornare, sempre uguale, sempre diversa. Composto tra il 1974 e il 1976 come creatura libera, destinata ad ampi spazi estemporanei e cristallizzato in partitura nel 1997, Music for 18 musicians portava a Mantova la voce torreggiante e ancora troppo appartata di uno dei massimi cantori viventi del nostro tempo. Folgorato in gioventù dai contrappunti bachiani, dagli spigoli vivi di Stravinsky, in cui gesto dissacratorio e recupero del passato trovano un miracoloso equilibrio, dalle polifonie fiamminghe. Un Sacro Graal della musica nel quale lo statunitense Reich aggiunge il selz del jazz di Coltrane e le note speziate rubate ai suoi viaggi negli angoli più remoti del mondo, dai canti tribali ascoltati in Ghana alle percussioni dell’Africa occidentale al gamelan balinese. Nello scrigno di piacere di Federico II Gonzaga, la strabiliante arte di Giulio Romano trovava, a fare da straordinario controcanto alle sue metamorfosi, la potenza di questo affresco sonoro in cui, sul palco, ogni interprete segue il proprio filo, a sua volta intimamente intrecciato agli altri, e dipana la propria storia, ossessivamente ripetitiva, ossessivamente metamorfica, aggrappata a patterns ritmico-melodici apparentemente immutabili, in realtà animati da un eterno, inarrestabile moto intrinseco.
L’ensemble Sentieri Selvaggi – con il suo fondatore Carlo Boccadoro – radunava per l’occasione eccellenti compagni di viaggio, chiamati ad unirsi all’ambiziosa traversata. Le voci di Elisa Bonazzi, Sara Jane Ghiotti, Gaia Mattiuzzi e Giulia Zaniboni, disposte a due a due agli estremi della formazione, a dare piena stereofonia all’ardua, afasica, visionaria onomatopea dei loro interventi sonori; i pianoforti di Gabriele Carcano e Andrea Rebaudengo – nomi di casa, per il pubblico delle stagioni concertistiche mantovane – Valentina Messa, Bruna di Virgilio e, soprattutto, Leonardo Zunica, prezioso tessitore, in scena e dietro le quinte, nel nome di Eterotopie e di MantovaMusica, di un’altra preziosa occasione di musica per la città, capace di spostare l’asticella della fruizione musicale e del dibattito culturale oltre il rassicurante perimetro del consueto. Uniti ai clarinetti di Mirco Ghirardini e Giovanni Pignedoli – erano loro, le voci più remote dell’antro, le energie pulsionali più antiche - al violino di Piercarlo Sacco e al violoncello di Aya Shimura, chiamati a tracciare la linea psicoacustica attorno a cui finiva per approdare l’intreccio delle altre, all’esercito di percussioni – Leonardo Bertolino, lo stesso Boccadoro, Nicola d’Auria, Andrea Dulbecco, Ettore Marcolini, Edoardo Maviglia, Matteo Savio – i mille fili di queste presenze formavano si facevano flusso tridimensionale, immersivo, magnetico. Una cattedrale sonora abitata da alberi, uccelli, gocce, folate di vento, forze invisibili, atomi che, per contatto, contaminazione, fermentazione, diventavano respiro generato dalla terra e instillato nel fiato dell’uomo e dello strumento.
Una forza panica che proprio la ripetitività del calco esaltava nel suo eterno riverbero. A spalancarsi era, per un istante durato un’ora, un creato trepidante, irrequieto, mosso dalle rifrazioni luminose impresse da variazioni millesimali, inserite in uno spettro armonico e melodico apparentemente statico nel suo imperturbabile pulsare. Nella tela del cielo, ad irrompere erano l’alito della vita, schegge di voci, istantanee di un’anima primigenia, incontaminata, pronte a riassorbirsi nel tutto, lasciando dietro a sé la loro scia luminosa, come le stelle filanti di una cometa subito inghiottita dal nero della notte. Non c’è giudizio, non c’è punto di vista. Solo l’abbandono al flusso delle cose, l’apertura incondizionata, totalizzante, alla vita, alla complessità di soluzioni ardite, infinitamente possibili, che animano il gioco dell’universo. Una musica senza racconto, un enigma senza chiave; un gioco della mente che contagia il corpo e ne accende la danza, movimento nel movimento di una marea inarrestabile, fremente.
Un ascolto che sposta, e ci costringe a ripensare, i nostri paradigmi, quell’energia interiore che la civiltà ci ha imposto di addomesticare, e di guardarla in tutta la sua muta, pericolosa bellezza, fatta della stessa sostanza di cui siamo avvolti, parte di quell’eterna danza delle cose, di quell’eterno trascolorare del cielo osservato dallo specchio di una camera fissa. Un trattato di cosmologia, di astronomia, da contemplare in silenzio, fino all’ultimo battito, sapendo che tutto, così come aveva preso avvio da quel bisbiglio lontano, potrebbe riaffacciarsi, e ricominciare. Un’ora di musica: il tempo di sbirciare sulla breccia che, per un attimo, ci ha fatto assaporare il rumore del cosmo, l’infinito mistero e l’arcana polifonia di un tutto da cui veniamo, a cui tendiamo: le ore, le stagioni, l’arco del sole nel cielo, l’allungarsi delle ombre sulla terra, il nascere e il cadere delle foglie. Una lezione sulla caducità e sull’eternità, sorelle e avversarie di moto perpetuo senza destino e senza morale in cui noi siamo solo comparse. Tutto ciò che possiamo fare è assecondarne il movimento. Applausi entusiastici. Il ritmo del Festival, insieme alle sue parole, fluiva molto lontano da qui.