Recensioni - Cultura e musica

Al Festival de la La Roque d’Anthéron il pianismo severo e distaccato di Lukas Geniusas

in programma musiche di Schubert e di Liszt

Le cicale, i grilli, il vento, la musica. Il tutto avvolto nel silenzio maestoso di un parco di 365 platani secolari. Il Festival de Piano che dal 1981 accoglie a La Roque d’Anthéron qualcosa come novantamila presenze annue, spalmate in tre settimane di concerti con il meglio del meglio del concertismo mondiale, è sempre un gran miracolo nella sinestesia di combinazioni che offre. Azzeccare, di quell’abbacinante girandola di eventi, la sequenza migliore – facile a dirsi, ma quale pista scegliere? Gli dei dell’Olimpo? I talenti rivelazione non ancora ascoltati? E quale appuntamento in una serata che ne ospita due? – è il risico che tutti gli anni costringe a scegliere, e quindi a rinunciare.

In questa edizione numero 42, le nostre prime note sono state quelle di Lukas Geniusas, lo scorso 29 luglio, in un programma che, minacciato da zanzare impertinenti che infastidivano l’artista per tutta la durata del recital, accostava le voci di Schubert e di Liszt. I quattro Impromptus op.90, detti con un fil di voce, osservati dalla distanza di un’emotività che per tutto l’ascolto ci è sembrata raffreddata, assopita, come uno sguardo in retrospettiva. Un racconto avaro di indulgenza, di prossimità del cuore, in un certo qual modo disidratato dalle brucianti passioni che percorrono il tessuto di queste quattro creature, da subito condotto nella comfort zone di sonorità perlopiù mediane che si facevano sliricate quando affondavano nelle sfumature più intime e rabbiose quando la voce schubertiana prende fuoco. Uno Schubert raccontato per indizi, per oggetti, impersonale, volutamente colto in un’inquadratura a campo largo.

Uguali, e ugualmente spiazzanti, le rotte prescelte nell’affrontare il sontuoso affresco della lisztiana Sonata in si minore. Stessa asprezza, stesso filtro distanziatore; qui la poderosa strumentalità del pianista lettone poteva finalmente trovare terreno per esprimersi in tutta la sua potenza di fuoco, nel sinfonismo incalzante che monta come una marea, nelle mitragliate di ottave che percorrono la dorsale di questo monumento che si annuncia con due sibillini rintocchi in sordina e si conclude nello stesso silenzio, con il si finale che suggella la tempestosa traversata. Eppure è stato solo parzialmente così. Ad annodare (alcuni de)i fili della Sonata era un pianismo granitico quanto sfuggente, a corrente alternata anche sul piano della resa strettamente tecnica, squarciato da anse di incomprensibile sospensione in cui tutto - tensione, racconto, senso – sembrava smagliarsi e dissolversi, slentato, morente, senza quella lucida adesione che consente di uscire vivi, e soprattutto vincitori, da una simile prova. Applausi come sempre calorosi da parte del pubblico presente, ricambiati con due bis.