La giovane pianista applauditissima nel Concerto in la min. di Grieg accompagnata dalla Verbier Festival Chamber Orchestra diretta da Gábor Tákacs-Nagy
È la vecchia Menton, arroccata a picco su un mare che, nota dopo nota, si tinge di inchiostro e di barbagli luminosi. È il Festival de Musique, con le quinte barocche del Parvis della Basilique de St. Michel Archange e un pubblico sempre eterogeneo, tra musicofili di una sera e appassionati di una vita. È la magia che da 75 anni si ripete, uguale e diversa, nel segno della grande musica, tra ritorni e debutti. In questa edizione inaugurata da Alexandre Tharaud e dall’Orchestre Philarmonique de Nice guidata da Lionel Bringuier e conclusasi con il concerto di Renaud Capuçon e Guillaume Bellom, a brillare tra le altre illustri presenze – la giovanissima Arielle Beck, Fazil Say, Beatrice Rana in Trio, Nelson Goerner, solo per citarne alcuni - è stata la stella di Alexandra Dovgan, 17 anni, un passato recente di enfant prodige incoraggiato niente meno che da Grigory Sokolov, suo primo ammiratore e (spesso) spettatore, e un presente fatto di una nuova, altrettanto prodigiosa, consapevolezza.
Un bruco liberatosi del bozzolo e pronto a librarsi, ormai farfalla. Ad attenderla, lo sorso 8 agosto, c’era la Verbier Festival Chamber Orchestra, giovani musicisti abituati alle somme bacchette, e alle somme sfide, animati da un entusiasmo che trapela da ogni frase: ma soprattutto, alla loro guida, c’era la magnifica autorevolezza di Gábor Tákacs-Nagy, satiro danzante e instancabile cesellatore di mondi sonori resi creature parlanti, vive, insinuanti. Con loro, la pianista russa ha intessuto un dialogo intenso e appassionato sul terreno scosceso del Concerto in la minore op.16 di Edvard Grieg, scolpito con rara finezza nell’articolazione della sua anima cangiante. Un ritratto intimo e ritroso nell’annuncio del tema, quasi trattenuto nel profilo della pulsazione ritmica, sussurrato, come da lontano, ma pronto a prendere fuoco e a liberare, pungolato dall’orchestra, la sua natura più rapsodica, inquieta, bruciante di un fuoco che si propaga, sul letto di una strumentalità brillante quanto sfuggente, saturnina. Bastavano pochi minuti di ascolto per rendersi conto, senza dubbi, del cammino interiore, oltre che strettamente tecnico, compiuto da questa giovane interprete dagli anni delle sue prime apparizioni.
Da quel suo recital solistico tenuto nel 2019, dodicenne, a Brescia e, qualche tempo dopo, da quel delizioso Mozart disegnato con fine pennino al Bibiena di Mantova, con la complicità dell’OCM. Una maturazione che segue la mappa personale di una personalità fuori catalogo, nella quale il senso dell’essenzialità, della purezza, ha conservato i tratti distintivi del suo pianismo – pedale parcamente dosato, un legato di seta mosso da una segreta articolazione – aggiungendo, nel frattempo, lo smalto di ben altre risorse al suo arco. Un suono circoscritto riduceva l’ampiezza di questo racconto, declinandone pertanto la direzione verso una visione più raccolta, più preziosa nelle sfumature, che nell’Adagio centrale, complice il pungente invito del direttore, si scaldava alla fiamma dolce di un racconto di struggente pregnanza, lontanissimo, quasi solo immaginato, trascolorante dalla compagine orchestrale alla cordiera, in uno scambio naturale e affettuoso che nel terzo movimento abbracciava il gioioso, turbinante vigore di una danza popolare norvegese, abitata da una sezione centrale in cui il canto del pianoforte e quello del primo violoncello diventavano l’abbraccio di un Lied a due voci.
Paul Emmanuel Thomas, direttore artistico del Festival, aveva atteso prima offrire alla Dovgan l’onore del palco del Parvis. Nella sua visione di un cartellone costruito con cura sartoriale, attorno a progetti pensati a quattro mani con gli artisti, cuciti addosso alle loro caratteristiche strumentali e interpretative, i tempi non erano ancora maturi, e il dono del tempo ad un giovane artista è oggi merce tanto rara quanto impopolare. Venti minuti di musica altissima bastavano a dargli ragione e a far dire a noi tutti che quel tempo era finalmente giunto, ed era qui, adesso, celebrato in un concerto dalle promesse mantenute, e suggellato da un Corale bachiano (Jesus bleibet meine Freude, nella trascrizione per pianoforte di Myra Hess) reso nell’immaterialità devota del suo damasco di polifonie, fili e tessere di un mosaico che sembrava via via comporsi, inesorabile, affiorante dal mare del suo flusso narrativo. Per una serata da ricordare, poteva bastare. Ma questo altro non era che il cuore di un impaginato ben più ampio, più ricco, in cui erano le mani di Takács-Nagy a disegnare geografie e mondi di straordinaria vividezza. A partire da quello haydniano della prima Sinfonia in Re maggiore, quasi una dichiarazione di intenti del padre del classicismo viennese, scolpita, nell’ariosa solarità delle sue linee, con sorgiva esuberanza, gusto per i contrasti, gli accenti inattesi, i sottili tranelli che Haydn piazza là dove l’ascoltatore non se li aspetta, per scombinare, anche se di un soffio impercettibile, le carte in tavola, nella sorniona, finta immobilità del secondo movimento, e nell’irruzione dello spirito popolare del terzo movimento, scavato nelle sue linee mordaci, bizzarre, in cui lo sguardo del compositore sembra guardare ad un oriente pulsante al di là delle mura di Vienna.
Dall’altro capo del filo, il Mozart delle ultime cose, con la Sinfonia K 543, suonata dai musicisti i piedi, alla maniera antica, quasi a liberare un’energia corporea da trasferire negli strumenti. Il risultato era un racconto dall’ebbrezza ancor più intensa in quanto abitata dall’incombente senso di una fine che già sembra annunciarsi. Dalla sontuosa introduzione accordale della prima delle grandi Sinfonie nate nel 1788, Tákacs-Nagy portava subito l’ascoltatore verso un mondo più appartato, fragrante, odoroso di bosco nelle idee secondarie, cresciute come muschio all’ombra delle più monumentali consorelle, a creare un mosaico di avvincente complessità. Aureo nel primo movimento, con i formidabili ottoni schierati a dare polpa e fondale alla profondità della resa, impietosamente dolceamaro nel secondo, di un’ironia guizzante e, a tratti, feroce nel terzo, dove il primo clarinetto, lanciato dal direttore, dava una prova di rara classe, prima di buttarsi con il resto della ciurma nel finale dai mille scherzi, giochi, tranelli. Un incanto di luce, di bellezza, di una musica fatta danza, così autentica da apparire libera, illusionisticamente estemporanea. Un Mozart sottilmente caricaturale, abissale e altissimo, con il direttore demiurgo a far volteggiare in aria, irresistibile, le mille iperboli, i mille punti di fuga di un’architettura olimpica e ipnotica. Applausi e standing ovation, suggellati dalla deliziosa Eljen a Magyar!, Polka di Johann Strauss figlio, con cui Tákacs- Nagy ha voluto ricordare André Böröcz, come lui ungherese, indimenticato, visionario fondatore del Festival di Menton.