Recensioni - Cultura e musica

Alla Scala una Tosca essenziale e senza sfarzo

Nela sala del Piermarini ha debuttato l’allestimento firmato Bondy-Peduzzi-Canonero coprodotto con Monaco e New York

Dopo il MET e la Bayerische Staatsoper, con cui è stata coprodotta, la Tosca di Giacomo Puccini firmata da Luc Bondy ha debuttato anche al Teatro Alla Scala.
Questo allestimento, che nelle sue precedenti tappe aveva suscitato parecchio scalpore a causa delle sue scelte registiche, giudicate eccessive da pubblico e critica, ad ogni nuova ripresa è stato ripulito da alcuni dei passaggi tra quelli ritenuti più forti; pertanto la versione arrivata a Milano ha risentito di queste progressive epurazioni.
 

Il risultato è stato quello di una Tosca scabra ed essenziale nelle scenografie firmate da Richard Peduzzi, anonima nei costumi di Milena Canonero e con alcuni passaggi registici che sembravano non del tutto risolti. Ad esempio di ciò si può citare il finale del primo atto, in cui Scarpia originariamente abbrancava e baciava la statua della Madonna, mentre qui si è fermato di fronte a lei, rendendo ambigua, ed in parte incomprensibile, la conclusione del Te Deum.
Nelle intenzioni Bondy, infatti questo allestimento avrebbe dovuto enfatizzare gli aspetti di sessualità e sensualità insiti nella partitura pucciniana, che in parte sono  comunque rimasti. Ad esempio  nel secondo atto Scarpia, dopo aver congedato un gruppo di signorine semisvestite con le quali si era intrattenuto, inizia un gioco di seduzione decisamente esplicito con Tosca che, per sferrargli le (troppe) coltellate che lo uccideranno, anziché aggredirlo lo attende allusivamente sdraiata sul divano.
Non sono state comunque queste le uniche soluzioni registiche che hanno caratterizzato lo spettacolo: suggestivo ad esempio è stato l'arrivo in chiesa di Angelotti in un'atmosfera buia, illuminata solo da uno spot che lo inseguiva, come anche il finale del secondo atto con Tosca che, anziché uscire da Palazzo Farnese, si è accasciata affranta sul divano. Più discutibili al contrario la partita a scacchi di Cavaradossi prima della fucilazione ed il finale in cui Tosca è rimasta sospesa a mezz'aria sugli spalti di Castel Sant'Angelo.
Gli ambienti disegnati da Richard Peduzzi, ridotti all'essenziale e ben lontani dagli sfarzi della Roma papalina, non hanno sortito particolare effetto: Sant'Andrea della Valle era un'imponente struttura di mattoni a vista che poco o nulla aveva della chiesa, ma ricordava più il Falstaff "padano" di Strehler; l'ufficio di Scarpia era un luogo asettico, dalle pareti spoglie e disadorne, ravvivato solo da un mobilio minimale, che rimandava a certe anticamere dei luoghi di tortura di epoca fascista; mentre Castel Sant'Angelo era caratterizzato da una pedana e da un bastione laterale immersi nel buio notturno nell'attesa di un'alba che non sarebbe mai arrivata.
In sostanza un allestimento che, nonostante alcune interessanti intuizioni, non ha mai veramente appagato l'occhio.
Sondra Radvanovsky, nel ruolo del titolo, ha confermato la buona impressione suscitata la scorsa estate nel Trovatore areniano. La voce è solida e, nonostante qualche incursione in uno stile eccessivamente verista, il personaggio è stato egregiamente risolto anche sotto il profilo interpretativo. Particolarmente riuscito è stato il secondo atto, grazie anche all'efficace Scarpia tratteggiato da Zeljko Lucic. Dismessi i panni da "grand seigneur" del barone, il baritono serbo ha sottolineato il lato più gretto e lascivo del capo della polizia, risultando particolarmente convincente nonostante la voce in più occasioni  necessitasse di maggiore incisività.
Marco Berti, Cavaradossi, ha esibito timbro squillante e facilità negli acuti, cui però non ha saputo abbinare un'adeguata capacità di fraseggio, alternando momenti interessanti ad altri risolti in maniera decisamente sbrigativa.
Buoni i comprimari, ovvero Alexander Tsymbalyuk (Angelotti), Luca Casalin (Spoletta), Davide Pelissero (Sciarrone), Ernesto Panariello (Carceriere), con un particolare plauso rivolto al Sagrestano di Filippo Morace.
Il giovane direttore Omer Meir Wellber, al suo debutto scaligero, ha realizzato una concertazione estremamente raffinata, dimostrando una grande conoscenza della partitura ed altrettanta maturità nell’esecuzione. L’orchestra ha  dipanato il tessuto pucciniano sfoggiando una ricchissima tavolozza di colori senza che però questo andasse mai a scapito della coerenza o della fluidità del racconto.
Il pubblico che riempiva il teatro e che nel corso dello spettacolo ha tributato un solo applauso a scena aperta al termine di “Vissi d’arte”, al termine ha accolto calorosamente tutti gli interpreti.

Davide Cornacchione 4 marzo 2011