Recensioni - Cultura e musica

Bergamo: il travolgente pianismo di Volodos in memoria di Agostino Orizio

Il musicista russo inaugura al Donizetti il festival dedicato ai 100 anni dalla nascita del suo fondatore.

Sullo sfondo scorrevano le immagini dedicate ai 100 anni dalla nascita di Agostino Orizio, fondatore ed anima del Festival pianistico di Brescia e Bergamo, e, con lui, fotogrammi di quel forziere di nomi, facce, temperamenti che il Direttore bresciano aveva saputo catalizzare lungo l’intero arco della sua vita, creando con ognuno di essi un legame affettivo ancor prima che artistico. Argerich, Magaloff, Sokolov, solo per citare tre fra i mille giganti di questo affresco. Ma nell’aria di un Teatro Donizetti in gran spolvero per la serata inaugurale della rassegna, lo scorso 20 aprile, ad aleggiare era lo spirito di Radu Lupu. Insuperato cantore di confessioni non meno che di silenzi, di rovelli, di un’umanità di cui solo lui custodiva i segreti, il pianista rumeno scomparso due giorni prima – tragica fatalità, nelle stesse ore di un altro spirito eletto, il cinquantunenne Nicholas Angelich – era presenza viva, incombente, bellezza nella bellezza, nel concerto di Arcadi Volodos.

Tanti gli indizi, a partire da quella sedia che, contrariamente allo sgabello, obbliga l’interprete a cercare leve lunghe, ad ottenere dalla cordiera (quella di uno Steinway sontuoso) sonorità distese, evocative, insinuanti, sgravate dalla loro ineludibile percussività. Nel segno di Lupu pareva, quasi miracolosamente, anche il programma: il Re maggiore della Sonata D 850 di Franz Schubert e, a seguire, d’un fiato, come se gli acquerelli dell’una abitassero nel turbine divorante dell’altra, le Kinderszenen op. 15 e la Fantasia op. 17 di Schumann, ovvero un dialogo a due zeppo di rimandi, perfetto per uscire dalla sala in punta di piedi, ancora avvolti nel sortilegio di quelle pagine che come poche altre raggrumano l’esistenza. Percorrerle significa avere nelle gambe la fatica del fondista, la tenacia di distanze sulle quali vince la chiarezza dello sguardo, più dello scatto bruciante. Qui il leone da tastiera cade alle prime battute e diventa stucchevole, prevedibile, banale; solo l’anacoreta, il pellegrino, il rabdomante arrivano in fondo. Dal travolgente virtuoso capace di diavolerie che il pubblico del Festival aveva conosciuto alla sua prima apparizione – era il 2003 –, Volodos sembra da tempo aver preso le distanze; preferisce misurarsi con sfide che abbiano nell’affondo introspettivo, nella plasticità dell’eloquio, il cardine e il fuoco. Cinquant’anni, un passato da straripante prodigio, un presente di altrettanto tracimante saggezza, Volodos si è inoltrato nella Sonata schubertiana con singolare sobrietà, in una narrazione quasi priva di pedale, lasciata alla naturale scansione dell’articolazione nuda nella quale i trapassi del primo movimento, le sue avventurose armonie, giungevano con una drammaticità ancor più accesa, più sincopata e sanguinante, prima di affondare nell’estatica meditazione del Con moto centrale, nel suo arabesco carezzevole, silenziosamente mesto, scosso dal vento di un canto fiero, di un eroismo trattenuto. Il suono non corre lontano quanto quello, inarrivabile, di Lupu, non doppia i remoti capi di distanze siderali, preferisce uno scalpello più pungente. Come quello che disegnava la briglia ritmica del valzer nello Scherzo profumato di vecchia Vienna, di Grinzing. E, su tutti, quello dell’ultimo movimento, con l’ossessivo ribattuto reso senza morbidezze, impettito, asciutto, a scandire il cangiante gioco maggiore-minore di una variazione continua, incessante, fintamente leggera e pervasa di inquietudine e di una satira amarissima. Nel finale, dopo un racconto trafitto da spigoli, punte aghi, il nastro si riavvolgeva, pacato, pudico, lasciando il campo al mondo schumanniano.

La lente del pianista pietroburghese sul mosaico delle Kinderszenen – il mondo visto dagli occhi di un bambino, ma anche l’infanzia come mondo tout court – sembrava esplorarne l’avvincente contrasto delle stazioni – lo sguardo “esotico” sull’altrove, la cognizione del dolore, la dimensione del sogno, le divertenti scene di vita domestica, fino al testamento poetico dell’ultima scena – da una prospettiva che temperava, anziché esaltarlo, l’elemento squisitamente umoristico della scrittura, il suo spirito guizzante, gli scarti emotivi. Quasi come a suggerire la disillusione del poi, il polverizzarsi dell’incanto, giunta l’ora delle scelte, in uno sguardo appianato, lineare, per certi versi sconfitto. Fino al quadro conclusivo che, insieme alla tensione quasi insostenibile della Fantasia, accesa di un sinfonismo torrenziale e visionario, valeva il concerto. A suggello, una pioggia di bis, inaugurata con L’uccello profeta (ancora Schumann) dalle Waldszenen op. 82 nel cui arcano enigma, impalpabile svolazzo di vita già presago di morte, l’ascoltatore ritrovava le antiche morbidezze del proverbiale pianismo di Volodos. E conclusa con un bouquet del prediletto Mompou, raffinatissimo ed immensamente malinconico, dedicato alla memoria di Agostino Orizio.