Schubert, Suk e Dvoràk nel programma offerto al Teatro Toselli
Cuneo è città di una bellezza che non ti aspetti. Una bellezza di pietra e di carne viva, di storia custodita con sabauda fierezza, di tradizioni che hanno saputo prendere per mano le generazioni, affidandone la memoria ad un presente carico di progetti. Un corso che corre a perdita d’occhio, fino alla grande piazza Galimberti. Portici antichi, una rosa di ristoranti e caffè dalle insegne ancora cariche di una sapienza tutta artigiana, il borgo pittoresco, il teatro.
Lo scorso 25 maggio, in occasione di uno degli ultimi appuntamenti della rassegna Città in note, la musica dei luoghi, davanti alle porte del Toselli, a sorprenderci era una lunga fila di giovani e giovanissimi. Gioiosamente chiassosi, impazienti di entrare, affamati di musica e di esperienze d’ascolto degne di essere elevate a modello, a riferimento. La faccia migliore di una città in cui le porte del Conservatorio locale si aprono alle proposte del territorio, creando quel ponte che diventa sinergia, promessa, coraggioso disegno politico sul domani. Insieme a loro, tanti docenti, oltre al pubblico di appassionati, giunti a riempire un teatro bomboniera. La serata, d’altronde, non andava disertata. Sul palco, un campionario che profumava della quintessenza del più alto camerismo: il violino di Nikita Boriso-Glebsky, il violoncello di Senja Rummukainen, il pianoforte di Georgy Tchaidze. Nomi di prima grandezza nello scenario internazionale, per un verso idoli, per un altro semplici fratelli maggiori di quei ragazzi che sedevano tra le file della platea. Il mattino del giorno stesso, i tre musicisti erano stati in Conservatorio per incontrare gli studenti e offrire loro, attraverso una lezione concerto, un antipasto del menu serale. Tanto era bastato per creare quel clima di eccitata attesa che brulicava in sala, perdendosi in rivoli di commenti e scambi di punti di vista, e che, alla fine della serata, sarebbe esploso in applausi da corrida, con i musicisti visibilmente travolti da quell’onda anomala di entusiasmo.
Ma, al netto di furori tutti giovanili, il senso di stupefatta meraviglia era il medesimo per l’intero uditorio, catturato in quella dimensione riflessiva, risonante, che solo ascolti così pregnanti sanno assicurare. In apertura, lo Schubert araldico, insieme monumentale e sfuggente, del Trio op.100, pagina miliare quanto rischiosa con quella tinta tutta da trovare, oscillante tra il piglio risoluto ed una più affettuosa grazia, tra un incalzante richiamo alla sintesi e un’irresistibile tentazione alla divagazione. “Attivo, virile, drammatico”, secondo le parole dell’infallibile Schumann, che ne delinea l’essenza contrapponendolo al “fratello” op.99. Da qualsiasi punto lo si guardi, questo monolite di ampie proporzioni e di ancor più ardite ambizioni nasconde insidie: chi ci si avventuri rischia ora la stucchevolezza, ora la vana pomposità, ora l’autocompiacimento. Sul palco, queste ed altre sono le sabbie mobili che attendono al varco gli esecutori; in platea, nel caso, l’unica minaccia è la noia. Ma non accadeva nemmeno per un attimo, con il timone granitico di questi straordinari interpreti, capaci di un approccio intelligente nell’impostazione delle architetture, crepitante nell’articolazione finissima nell’esaltare una scrittura audace e millimetrica, introspettivo senza mai cedere il passo a strascicati terreni paludosi. Una lettura in cui, nella filigrana di strumentalità sopraffine dove la naturalezza degli archi trovavano, a contrappunto, il pianoforte imperioso di Tchaidze, immenso suggeritore di infiniti rilanci, di continui cambi di angolazione, era una conciliante positività a catturare lo sguardo; una visione sobria e asciutta, intimamente tesa in avanti, capace di fronteggiare il destino senza subirlo, come suggeriva lo stesso, celeberrimo Andante centrale, con il suo canto solitario su basso ostinato, travasato di cordiera in cordiera, che qui si faceva rovello, calibratissimo, pungente per verità e non per posa. Senza estasi, senza ripiegamenti. Inesorabilmente in cammino, in una fierezza senza vanto. Peccato quell’acustica avara, povera di quei riverberi che qui, nel mondo schubertiano così splendidamente acceso da un chirurgico gioco delle parti, avrebbe potuto regalare all’uditorio l’avvolgenza fatale di un ascolto ancor più godibile. Ma anche così, per sottrazione, era magia. E che incanto lo Scherzo, leggero e giocoso, di una leggerezza consapevole e matura, intensa e disillusa, con il cristallo del pianoforte a fare da coloratura: vento tra le foglie, batter d’ali, impercettibile brivido, danza dello spirito che, nella parte centrale, si tingeva di ruvida, sapida, danza campestre, capace di una gioia contagiosa. La prima volta, di Glebsky e Tchaidze, con il violoncello della magnifica interprete finlandese. Un’intesa già forte, sorprendentemente spontanea, come testimoniavano gli infiniti trapassi, le trascolorazioni, le ipnotiche traslazioni da un umore all’altro, da un cielo all’altro, in cui i tre musicisti subito guardavano, quasi senza dirselo, al medesimo orizzonte. Come nella diabolica trappola del movimento finale, inafferrabile cattedrale sospesa tra la fiaba e il baratro, luogo in cui, come spettri, ricompaiono a tradimento le ombre tematiche dei quadri precedenti, fantasmi da cui occorrerà l’intero movimento per liberarsi in uno sguardo finalmente rischiarato e di nuovo fiducioso.
Dall’altro capo del filo, lo Dvoràk del Trio “Dumky”, con il suo andamento rapsodico, ondivago tra l’audace e il ritroso, tra il lirico e il selvaggio, era la risposta slava a Schubert. Ciò che si spalanca oltre il bosco del Grinzing, oltre le porte di Vienna. Un paesaggio oscuro e struggente, discendente diretto di quella stessa visione, di quello stesso segreto tormento, acceso dai tre musicisti a folate di accecante, dionisiaca bellezza, esaltata pescando nell’anima delle sue venature contrastanti e non di rado stridenti, tra ballate elegiache ed esplosioni di incontenibile ebbrezza, tra desolazione e speranza. Al centro di questo viaggio verso est, a torreggiare era la gemma dell’Elegie di Josep Suk, una delle tante voci ingiustamente dimenticate del sottobosco boemo, in cui, a salire in cattedra, nel turgido tappeto assicurato dal pianoforte, era il violino di Glebsky, a filare un canto lunare e trasfigurato, commosso omaggio alla figura dello scrittore Julius Zeyer.