Recensioni - Cultura e musica

CINEMA: Fahrenheit 9/11

Il cinema non è solo un’arte, come d'altronde non è nemmeno solo un fenomeno commerciale: il cinema è una forma di espressione, co...

Il cinema non è solo un’arte, come d'altronde non è nemmeno solo un fenomeno commerciale: il cinema è una forma di espressione, come lo sono scrittura, arti figurative, musica eccetera. Per lo stesso motivo il cinema non è solo “fiction” ovvero storie più o meno inventate, più o meno patinate, meglio o peggio raccontate, ma può essere, ed è , anche documentario. Non a caso il cinema nasce proprio come documentario, come rappresentazione della realtà; di tale natura erano infatti i primi lavori dei fratelli Lumière, mentre il cinema “di fantasia” venne inventato da Meliès un paio di anni dopo.
Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, pur essendo un documentario e pur non rispettando quelli che sono i canoni dell’estetica cinematografica attuale, è quindi cinema a tutti gli effetti, anche se il taglio narrativo rimanda ad un linguaggio dalle caratteristiche più televisive che cinematografiche. Seppure meno riuscito del bellissimo “Bowling a Colombine”, opera precedente dello stesso regista, questo film oltre ad essere ben realizzato (soprattutto nella prima parte) ha l’indiscutibile merito di raccontare una serie di avvenimenti legati alla storia recente degli Stati Uniti, quali l’elezione di Bush, l’attacco alle Twin Towers e la guerra in Iraq attraverso documenti inediti o che comunque i grandi organi di informazione si sono ben guardati dal rendere troppo noti al grande pubblico.
Attraverso una lettura decisamente di parte (e come potrebbe essere altrimenti) apprendiamo che i risultati elettorali che hanno portato all’elezione di Gorge W. Bush alla Casa Bianca non corrispondono probabilmente a quanto è emerso dalle urne, oppure che nei giorni immediatamente successivi all’11 settembre nella totale paralisi dei voli è stato permesso ad alcuni aerei privati della famiglia Bin Laden (peraltro tra i principali partner finanziari della famiglia Bush) di decollare da New York alla volta dell’Arabia Saudita, o ancora che l’ammontare degli investimenti dei sauditi negli stati Uniti corrisponde circa all’8% del bilancio degli USA stessi e così via.
Moore utilizza un abile montaggio di documenti video, fuori onda, ed interviste compiute in prima persona finalizzato a screditare completamente la figura dell’attuale presidente, facendolo apparire come un pupazzo poco intelligente che antepone gli interessi economici della propria famiglia a quelli della nazione di cui è a capo. Il gioco funziona molto bene nella prima parte, dove tra l’altro si assiste al filmato di Bush che dopo essere stato avvertito dell’attentato alle Twin Towers, non sapendo come comportarsi, continua per 9 lunghi minuti a leggere inebetito favole per bambini in una scuola elementare (ed è il momento più emblematico di tutto il film, con espressioni degne della migliore interpretazione beckettiana di Buster Keaton), mentre nella seconda parte un eccessivo accanimento contro la guerra in Irak rallenta il ritmo e mostra qua e là la corda. Anche la lunga parentesi dedicata alla madre del soldato morto in guerra rischia di suonare retorica e di perdere parte della forza emotiva che comunque le va riconosciuta.
Da un punto di vista ideologico si potrà poi essere d’accordo o dissentire dalla tesi qui espressa, ma è indubbio che la documentazione è estremamente scrupolosa e probabilmente poco attaccabile visto che dalla vittoria del film a Cannes non si sono ancora levate voci da parte dell’establishement USA per smentire le informazioni qui riportate.
Al di là di ogni implicazione politica ritengo che sia un film che merita di essere visto, sia per l’indiscutibile abilità manifestata dall’autore nel presentare il materiale, sia perché anche chi non condivide le tesi qui esposte può comunque trovare dei validi elementi con cui confrontare le proprie idee. Altro merito di questo lavoro è quello di avere portato a conoscenza dei più una serie di notizie che abili manipolazioni mediatiche avevano comunque preferito insabbiare. Inevitabile che venga quindi alla mente il Gorge Orwell di “1984”, peraltro citato anche nella pellicola, e la sua visione di una società in cui la gente, priva di ogni senso critico e di capacità di giudizio morale, crede solo a quello cui le si vuole far credere, perché è arrivata ormai alla convinzione che tutto ciò che le viene proposto dall’alto deve essere necessariamente vero, anche se in netto contrasto con quanto magari sostenuto dalle stesse voci il giorno prima. Ma l’immagine di una classe politica (che in realtà è un potentato economico) che ormai si permette di agire con estrema disinvoltura contando sul fatto che la popolazione che dovrebbe rappresentare si può comunque aggirare o manipolare a piacimento mi ricorda anche la frase con cui in un celebre film ambientato nella Roma ottocentesca il Marchese del Grillo giustificava le proprie azioni scriteriate: “Perché io sono io, e voi non siete un cazzo!”, che recitata da un guascone Alberto Sordi faceva sorridere, ma se si pensa che quel “voi” adesso siamo noi suona già più sinistra.

D.Cor.