Recensioni - Cultura e musica

Christoph Eschenbach e Vadym Kholodenko trascinano la Toscanini in Brahms e Mahler

L'orchestra, che festeggia il mezzo secolo di attività, in un travolgente Concerto op. 83 ed una smagliante Prima Sinfonia "Titano". 

Mancava il soffio magico della sua tromba, lo scorso 10 maggio, alla festa della Filarmonica Toscanini a Parma. La vita di Matteo Beschi, nato a Castiglione delle Stiviere nel 1971 e diplomatosi al Conservatorio di Mantova nella classe di Neldo Lodi, si è spenta troppo presto, a poco più di cinquant’anni, per poter vedere la sua l’orchestra tagliare il traguardo del primo mezzo secolo di attività. In un Auditorium Paganini da tutto esaurito, passato, presente e futuro si ritrovavano fianco a fianco, a celebrare una realtà divenuta negli anni orgoglio regionale e quindi nazionale.

La sesta orchestra più antica d’Italia. Un miracolo di resilienza e di immaginazione, quello di portare la tradizione sinfonica a Parma, nella terra da sempre fortino dell’opera lirica. “Tutto questo è stato possibile in quanto abbiamo saputo camminare insieme”, ha detto il sovrintendente e direttore artistico Ruben Jais, guardando con gratitudine ai suoi predecessori seduti in platea. E a suggellare questo anniversario che proietta la realtà dell’orchestra verso il prossimo spicchio di secolo, sono stati chiamati due nomi di calibro internazionale come Christoph Eschenbach e Vadym Kholodenko. Bacchetta sontuosa il primo, erede della grande tradizione tedesca, indiscusso astro del pianismo internazionale il secondo, prima di affidare la serata alla sola orchestra e immergerla nel mondo mahleriano della Prima Sinfonia “Titano”, i due si sono confrontati sul terreno di un Concerto op. 83 di Johannes Brahms che il pianista ucraino smerigliava con il micidiale bisturi di un pianismo d’altri tempi esaltandone, più che l’intima, traboccante trepidazione, le frastagliate trame interne, i contrasti accesi, l’inquieto, impaziente ribollire, con un’autorevolezza strumentale e con una palette timbrica così magnificenti da chiamare in causa, una volta di più, i grandi sovietici del passato. Un affresco di grondante vigore, punteggiato da lampeggianti oasi di pura suggestione serviti sul piatto di un suono tridimensionale, aureo in ogni sua escursione, nelle profondità oscure dei gravi, nel trasognato baluginio degli acuti.

Sul podio, la sapienza di Eschenbach ne assecondava il corso senza tuttavia replicarne appieno la visione polarizzata, stesa per rifrazioni, per travolgenti ondate, penetranti affondi a ghermire, più che ad abbracciare, le voci ora dei corni ora dei violoncelli, tentando di indugiare, piuttosto, sulle atmosfere di mezzo, su una narrazione più morbida, più indulgente. Probabilmente più sinceramente brahmsiana. Quattro anni fa, durante la seconda ondata di pandemia, su quello stesso palco, di fronte ad una sala deserta, Kholodenko aveva furoreggiato in diretta streaming nel Concerto per pianoforte, tromba e orchestra di Šostakovič. In quell’occasione, comprimario degno di una personalità così straripante era stato proprio Matteo Beschi, in una serata memorabile. Lo scorso sabato, ci piace pensarlo, era anche per lui l’applauso di ringraziamento per questi primi cinquant’anni di vita di un’orchestra che per immaginare il suo domani ha voluto attorno a sé tutta la città.