
Maurizio Baglini ha riproposto nella sala del Ponchielli il celebre Kὂln Concert di Keith Jarrett
Inutile cercare il miracolo di quell’alchimia irripetibile, il senso di intatta stupefazione di quella sera di grazia del gennaio 1975, nata sotto le cattive stelle di un cielo sbagliato – un teatro dall’acustica improbabile, un Bὂsendorfer sgangherato, un viaggio sfiancante in macchina, dalla Svizzera a Colonia. Quell’istante cristallizzato in un vinile che ha visto consumarsi le tracce, ascolto dopo ascolto, senza perdere un grammo di quell’incanto inspiegabile, è storia. Non potrà più esserci un altro Kὂln Concert, se non nel ripetersi dell’incisione, sporca di vivo, ancora trasudante di quella poesia aspra e introversa, visionaria e alata, che un giovane Keith Jarrett vi ha riversato frase per frase, fino a farne l’ora di jazz più iconica del Novecento.
Oggi, quell’impaginato è uno spartito in cui il mercurio di quella scrittura affidata all’aria, ad una cordiera che sembra prendere il volo, si materializza in un pensiero codificato. Lo scorso venerdì 12 settembre, a Cremona, c’è voluto il coraggio di Maurizio Baglini, il suo spirito avventuroso al limite dello spericolato, per toccare quel testo sacro e pensare di proporlo al pubblico, in bilico su quel filo sottile, invisibile, che congiunge esecuzione ad improvvisazione. Ad ascoltarlo, nel colpo d’occhio di un Teatro Ponchielli senza poltrone, con il gran coda Fazioli posto come un monolite al centro della platea, era un pubblico che affollava palchi e galleria, appeso al sortilegio di un racconto erratico, di un monologo interiore che la ragnatela di sottili polifonie conduceva nel solco di armonie audaci, di soluzioni ogni volta disarmanti. Un racconto per sottrazione, affilato e struggente, tra il pulsare ossessivo di ritmi ostinati e il levarsi di canti immaginifici, spesso sgorganti da grumi di poche note ricorsive, come pensieri che non si decidono a lasciarci. E il suono: un cristallo multiprospettico, dardeggiante di rifrazioni luminose, di linee affioranti dall’ombra.
Nel pericoloso equilibrismo del suo essere funambolo, con intelligenza e lucidità, Baglini – che nel 1975 nasceva - non cadeva nella frustrante trappola di mimare il passo di un semidio, ma piuttosto faceva di questo viaggio un’occasione di dialogo con una partitura ancora viva e, al tempo stesso, con il pubblico che, cinquant’anni dopo – altre voci, altre stanze – si trovava a compartecipare a questo rito immersivo. Un viaggio che il teatro vuoto, risonante in ogni sua fibra in occasione del restauro a cui il ricavato della serata sarà devoluto, rendeva a suo modo unico. Qualcuno, sulla coda dello struggente commiato – quella ballata in la minore imbevuta di pioggia metropolitana, di scenari sconfinati, di nostalgia – non ha resistito, rompendo l’incanto con un applauso destinato a prender fuoco. Standing ovation, e tutto il Ponchielli in piedi, a ringraziare di questa cometa posatasi su Cremona, di riprendere il suo viaggio tra le stelle.