Pel al Musica del Monteverdi il giovane Giovanni Pierotti ha affrontato con grande partecipazione l'impegnativa sonata beethoveniana
Basta una vita per dirsi pronti a sfidare, senza rimanerne impietriti, il fatale sguardo di Medusa della beethoveniana Sonata op.106? Giovanni Pierotti è convinto di no ma nel frattempo, allo scoccare esatto dei suoi diciannove anni, ne ha scalato per la prima volta la vertiginosa parete, affrontando la roccia con un ardore frutto non di giovanile spericolatezza ma di un raro istinto musicale fatto di mani nate per galoppare sulla tastiera e di un’intelligenza pungente, capace di disegnare, sorvegliandone ogni piega, labirinti contrappuntistici, polifonie audaci, con la totalizzante naturalezza propria dei soli cavalli di razza.
Cremona, domenica 9 novembre. Mentre per le strade del centro impazzava la Festa del Torrone, nell’elegante sala del Ridotto del Teatro Ponchielli era un fitto pubblico ad assistere al secondo appuntamento de La Musica del Monteverdi, realizzato in collaborazione con il Conservatorio della città. Anziani, studenti, bambini di pochi anni, venuti ad ascoltare un talento scalpitante alla prova del fuoco con una delle architetture più complesse dell’intera letteratura pianistica, letteralmente appesi, per l’intero arco dei quattro movimenti, ad un silenzio che si poteva quasi toccare. La ventinovesima delle consorelle: per il pianista pisano, allievo del Conservatorio nella classe di Maurizio Baglini, non creatura sublime e mostruosa da accarezzare, da disciplinare con garbo temendone la reazione, ma puro magma da risvegliare, da interrogare nella sua componente più urticante e, al tempo, nella sua dimensione più speculativa.
La lente di Pierotti, più che sull’aspetto strettamente tecnico – l’affondo del tasto, là dove la linea del canto è nuda, là dove il contrappunto è severo, tradiva dita ancora fragili e la necessità di esercizi alla sbarra ancora da masticare, per giungere ad un assoluto nitore – era infatti rivolta all’orizzonte esistenziale del pensiero beethoveniano: la voce del genio di Bonn non trovava, di fronte a sé, un mero esecutore ma un interlocutore avventuroso, ingordo di domande sul vivere e sul morire, affascinato da dilemmi resi a spigolo vivo, da una materia inseguita nella sua dimensione più ruvida, perfino barbarica (Ur-Musik, secondo Busoni).
Disposto a lasciarsi ferire prendendosi rischi da scavezzacollo, a farsi attraversare dal pungolo di verità lancinanti, pur di inseguire le verità della pagina, scandagliata nel suo aspetto filosofico, ben più che estetico, nel depositato della sua parola, più che nella carezza del suo canto. Con una tenuta si sorprendente tensione, Pierotti accompagnava Beethoven nella sua traversata dantesca, assecondandone bizze e confessioni, imprecazioni e preghiere, fino alla distesa dell’immenso, invocante Adagio sostenuto, per poi tuffarsi, senza esitazioni, senza compromessi, nel trattato di scienza contrappuntistica che abita la Fuga conclusiva. In questa lettura audace, pericolosa, angolatissima, il manifesto cristallino, perentorio, di una personalità che, se saprà coltivare con saggezza il suo immenso potenziale, potrà regalare alla musica ascolti che non si dimenticano. E, se dopo l’op.106, nessuna vera nota è possibile, a suggello arrivava la cullante lullaby del trasognato Peace Piece di Bill Evans. Come Beethoven, altro immaginifico pioniere di mondi.