
In occasione dello Stradivarti Festival magistrali esecuzioni di brani da camera di Grieg, Mendelssohn e Čajkovskij
Come per un vino di nicchia, bastano pochi sorsi per ritrovarsi al centro di un’esperienza immersiva multisensoriale, capace non solo di accendere i sensi ma di toccare, proustianamente, le corde dell’emotività, della memoria, della nostalgia. Così è anche quando l’assaggio riguarda la musica. A Cremona, ad inaugurare, lo scorso 28 settembre, il Festival Stradivari, in un Auditorium Arvedi da tutto esaurito, ad esibirsi è stato l’Ensemble d’archi dei Berliner Philarmoniker. “La Ferrari delle orchestre”, come amava definirla Herbert von Karajan.
Poche note, ed eccoci avvolti in quel legato proverbiale, nel velluto scuro di quel suono dall’impasto corposo, persistente, in quella smagliante strumentalità che racconta cosa significhi custodire il marchio di una tradizione secolare, tramandata di leggio in leggio, fino a raggiungere questi giovani spadaccini dell’arco, ultimi nati della prodigiosa officina. Il viaggio, che vedeva al timone il violino di Krysztof Polonek, era una rotta latitudinale attraverso il grande Nord che dalla Norvegia di Grieg approdava alla Pietroburgo di Čajkovskij, in un percorso di avvincente fascino. Ad aprire, era il bouquet rétro della Holberg Suite, omaggio di Grieg all’omonimo drammaturgo e ad un Settecento che qui affiorava manierato e terso nei cinque pannelli dipinti con pennino sottile, a catturare istanti di un mondo in posa, lontano nel tempo ma ancora pulsante. Da quelle fragranti miniature, era un salto nel vuoto quello che assaliva di fronte al Concertino per violino e archi op.42 di Weinberg, affidato all’immaginifico violino solista di Polonek: un mondo affilato e ramingo, punteggiato di asprezze e pronto a sorprendere con altrettanto aspro, disarmante lirismo, intinto nell’inchiostro nero di un’esistenza doppiamente perseguitata, in quanto ebreo polacco, dai più feroci totalitarismi del XX secolo.
Il viaggio proseguiva, con ben altra temperatura, facendo tappa nel salotto di un Mendelssohn ancora adolescente ma già capace di progettare, con una naturalezza che solo Mozart aveva saputo eguagliare, architetture poderose e al tempo leggere, vaporose e svettanti nella loro ardita verticalità. La Sinfonia in si minore n°10, nelle mani dei Berliner, trovava ad esaltarla l’argento vivo della sua natura, il finissimo ricamo di frasi lavorate in filigrana, in un gioco in cui ogni azzardo era apparente. Bastava questa manciata di musicisti a far arrivare, nella terra dei violini e del torrone, il profumo del suo sontuoso battaglione al completo. L’oro degli ottoni, il folleggiante brusio dei fiati. Una luce che si irradiava, splendida, sulla superficie della Serenata per archi op.48 di Čajkovskij, traducendone al millesimo la dolce curva delle linee, l’aristocratica eleganza. Un cristallo perfetto, irradiato di spavalda positività, di solare certezza nel quale solo a tratti occhieggiavano, struggenti e rivelatrici, le ombre di quell’estenuata, dolceamara nostalgia di un mondo che avverte la propria fine e che, su quell’orlo tra rimpianto e desiderio, non smette di volteggiare accennando un valzer in controluce, danzato solo col pensiero. Applausi scroscianti. Prossimo appuntamento, il 13 ottobre con un trio di eccellenze: Capucon, Soltani e Fujita.