Recensioni - Cultura e musica

Cremona: Un trio di solisti al Festival Stradivari

Virtuosa e raffinata ma non sempre perfettamente amalgamata l'esecuzione dei trii di Mendelssohn e Čajkovskij da parte di Renaud Capuçon, Kian Soltani e Mao Fujita

Ventiquattr’ore dopo averlo ascoltato al Teatro La Scala nel secondo Concerto per pianoforte e orchestra di Sergej Rachmaninov, con la Filarmonica diretta da Myung Whun Chung, lo scorso 13 ottobre ritrovavamo Mao Fujita nello scrigno dell’Auditorium Arvedi di Cremona, insieme al violino di Renaud Capuçon e al violoncello di Kian Soltani, per il secondo dei quattro appuntamenti dello Stradivari Festival. E la dimensione cameristica rimane, forse, il terreno più favorevole a questo miniaturista gioioso, maestro nell’arte – tutta orientale – di servire col sorriso, di porgere delizie confezionate con cura, slancio, discrezione.

Ma l’esito non sempre restituisce appieno ciò che, in potenza, sembra scontato. E non bastano tre signori strumentisti per fare, di essi, un trio. L’op.49 n°1 di Mendelssohn, con la sua scrittura brunita e guizzante, era appesa più all’incanto di frammentari solismi che all’afflato di uno sguardo autenticamente, sinceramente comune. Momenti di incanto, sprazzi di magia presto rotti, nell’arcata narrativa, da cali di tensione, da un’intesa solo di massima, come di chi batte in difensiva ritirata verso una pur smaltata superficie da cui le profondità - l’esaltazione febbrile, la cangiante opalescenza, il guizzante folleggiare - che pervadono questa gemma del camerismo romantico finivano per essere solo abbozzate, spicciamente risolte col colpo di reni fatto di gran classe e di consumata esperienza. Il cerimoniere Fujita, in un dialogo che non osava mai addentrarsi nel terreno di una vera intimità, rimaneva così sul tasto a pelo d’acqua, come in una conversazione tra gentiluomini, nel cristallo impalpabile di sonorità trasparenti, lasciando all’impeto asciutto e narciso del magnifico Stradivari di Capuçon il privilegio di una conduzione tesa in avanti, più interessata ad espugnare trionfalmente la pagina che ad esplorarla fio a smarrirvisi.

Allo stesso modo, più muscolare che struggente, più materico che nostalgico suonava il monumentale Trio op. 50 – due movimenti e un intero mondo emotivo che vi scorre attraverso - scritto da un Čajkovskij scosso per la perdita dell’amico e sodale Nikolaj Grigor'evic Rubinstejn. La sua luce inquieta, punteggiata dal continuo riaffiorare di ricordi di festa, di frammenti di vita, le sue malcerte schiarite subito risucchiate nel lugubre passo che si avvia al commiato, suonavano come una magnifica promessa mantenuta solo a metà. Abbastanza, tuttavia, da scogliere il silenzio del pubblico in applausi scroscianti dei presenti, salutati dalla ripresa del terzo movimento del Trio mendelssohniano.