Recensioni - Cultura e musica

Cremona: il Brahms cameristico di Krystian Zimerman

Lo Stradivari Festival ha ospitato una delle rare esibizioni del pianista polacco accompagnato da Marysia Nowak, Katarzyna Budnik e Yuya Okamoto impegnati nei quartetti per pianoforte op. 60 e op. 26

Con la sua forma circolare, mossa alle pareti da balconate sinusoidali che rimandano ad onde sonore, l’Auditorium Arvedi di Cremona è bomboniera di illuminato mecenatismo, luogo in cui la musica, in un’acustica millimetrica, avvolge in un unico abbraccio artisti e pubblico. Ultimo nato nella fitta serie di luoghi – a partire dal Ponchielli, capace di stagioni musicali e teatrali di superba fattura – che fanno di Cremona un modello esemplare di virtuosa vitalità nell’Italia di provincia, l’Arvedi è fucina di occasioni di musica: museo, laboratorio, deliziosa sala da concerto, legata in primis alla tradizione liutaia per la quale nel 2012 l’Unesco ha proclamato la città Patrimonio dell’umanità. Tra le tante iniziative qui ospitate nell’arco della programmazione annuale, spicca lo Stradivari Festival, la cui VII edizione si è conclusa lo scorso 12 ottobre. Sei appuntamenti in due settimane per accostarsi a strumenti e ad interpreti, coglierne peculiarità ed assonanze anche attraverso la scelta di impaginati diversi per scelta e rimandi.

l nome di Krystian Zimerman mancava da Cremona – andiamo a memoria – dalla fine degli anni ’90, quando con un recital memorabile aveva stregato un Ponchielli stipato in ogni ordine. Di quella serata, conserviamo intatta la memoria di un Brahms giovanile, quella Sonata op. 2 dai tratti inquieti e burrascosi che il compositore aveva portato con sé in valigia quando, nel 1853, aveva bussato alla porta di casa Schumann; una scelta che avrebbe – di fatto – determinato una brusca virata alla vita di Robert e Clara, oltre che alla propria. Vent’anni dopo (quella Sonata, incisa insieme alle altre due, oggi è introvabile, dopo esser stata ritirata dal mercato dallo stesso interprete), leggenda vivente in una carriera dalle apparizioni sempre più distillate e dall’inquietudine sempre più affiorante, il grande pianista polacco è tornato a far visita alla città del Torrazzo, e lo ha fatto nella rara veste di camerista. A fianco del violino di Marysia Nowak, della viola di Katarzyna Budnik e del violoncello di Yuya Okamoto, Zimerman ha tracciato un affascinante giro di compasso percorrendo ancora una volta itinerari brahmsiani: due dei tre Quartetti con pianoforte, l’op. 60 e – anziché il prevedibile abbinamento con le zigane pulsioni della guizzante op. 25 -  la monumentale op. 26, disposti a ritroso, con gli enigmi del do minore ad aprire la serata e l’annunciato Mahler del Quartettensatz purtroppo cancellato all’ultimo.

Sapiente regista di un gioco prezioso e sorvegliatissimo, forse eccessivamente attento a non smarrire la bussola, soprattutto nei piani sonori, di un controllo millesimale che finiva per frenare la corsa della narrazione, Zimerman si è da subito – sin da quella nota tenuta sul cui mistero si innesta, esitante, la trama degli archi – proposto come incontrastato magnete dell’interazione. Una personalità torreggiante, dall’innata aristocrazia del passo e del dire. Ma anche dal carisma troppo spiccato per amalgamarsi facilmente con visioni e soprattutto con talenti di non pari statura. Ne è così nato un dialogo serrato ma non pienamente circolare, disseminato di zone di assoluta bellezza – indimenticabile l’Andante, con pianoforte e violoncello impegnati nell’intrecciare un canto di struggente intensità – ma di fatto incompiuto, discontinuo, privo dell’affondo e della convinzione necessari per poter essere assaporato appieno. A rendere ulteriormente difficile per l’ascoltatore l’immersione nell’arduo percorso brahmsiano era la palpabile tensione del pianista, sempre magnifico seppur strumentalmente non più impeccabile, visibilmente disturbato da improbabili rumori e da fantomatiche presenze, come mostravano – durante l’esecuzione! - le sue ripetute occhiatacce ad un uditorio che più composto di così non avrebbe potuto essere. Non raggiungeva mai divine altitudini ma risultava comunque decisamente più omogeneo il dialogo dei quattro alle prese con le olimpiche architetture dell’op. 26, creatura sfuggente dalle ampie campate, meno veemente e più “diurna” rispetto alla pece dell’op. 60, in cui, se la qualità degli archi continuava a non eccellere per morbidezza e plasticità, stridendo di fatto nello scambio comunicativo con l’impareggiabile velluto del pianoforte, la resa complessiva assecondava la delicatezza di tratto del Quartetto e finiva per convincere, se non per emozionare appieno. Doveva essere un’indimenticabile lezione di camerismo; è stata un’occasione di grande musica offerta da tre solisti ed uno sciamano.