Nel rinnovato Auditorium Paganini un applaudito programma che comprendeva Brahms e Prokofiev
L’occasione meritava di sfidare il tempo inclemente che, da ormai più di una settimana, non dà tregua alle nostre terre di pianura. A Parma, due serate ravvicinate – quelle del 24 e del 25 ottobre scorsi - per inaugurare, nel colpo d’occhio sempre superbo dell’Auditorium Paganini (all’occhio, da oggi è stato promesso anche l’orecchio, con migliorie costituite da pannelli posizionati ad hoc per piegare una resa acustica ancora non del tutto felice), la Stagione numero 49 della Filarmonica Artuto Toscanini. Un’edizione, questa, che – come ha voluto sottolineare nel saluto d’apertura il nuovo Sovrintendente e Direttore Artistico Ruben Jais - già guarda alla cifra tonda. E lo fa con un cartellone ricco e ambizioso come non mai, in cui il grande repertorio sinfonico tra Ottocento e Novecento viene consegnato – o meglio, affidato – ad una rosa di interpreti d’elezione. Generazioni e scuole musicali a confronto, temperamenti e approcci differenti per un affresco vivido che già sulla carta invita a segnarsi in agenda le prossime serate - ognuna identificata da un tema dominante – che accompagneranno attraverso percorsi intrecciati fino al gran finale, il prossimo 25 maggio.
Riecco, dunque, sul palco, la Filarmonica capitanata da una Mihaela Costea che la sponsorship firmata Max Mara, estesa a tutta la componente femminile della compagine, tra gonne a ruota e impeccabili smoking di taglio sartoriale, rendeva ancor più affascinante nel sinuoso abito monospalla di raso indossato come divisa d’ordinanza. Venendo alla musica, non meno significative erano le ragioni di interesse. A partire dal programma: da un lato, il giovane Brahms e la “Sinfonia abortita” che, nei tormentati mesi successivi al ricovero di Schumann, sarebbe confluita, non senza un tribolato percorso di incessanti revisioni, nel Concerto in Re minore op.15 per pianoforte e orchestra. Dall’altro, il Prokofiev miniaturista del balletto Romeo e Giulietta op.64, a sua volta découpage dalle omonime tre Suites. E gli interpreti, pescati, entrambi, dalla costellazione di numeri primi del panorama concertistico attuale. Sul podio, il trentaquattrenne Dmitry Matvienko, radici a Minsk e studi a Mosca, nella classe di Gennady Rozhdestvensky, ma soprattutto un fecondo apprendistato all’ombra di Vladimir Jurovsky, di cui è stato assistente per le produzioni de Il Naso di Shostakovic e il recente Guerra e Pace di Prokofiev, alla Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera. Nei panni di atteso solista della serata, Alexander Gadjiev. Lo avevamo ascoltato, prima che un’autentica cascata di riconoscimenti - su tutti, il luminoso secondo premio al prestigioso Concorso Chopin di Varsavia del 2021, con tanto di Premio Krystian Zimerman per la migliore esecuzione di una sonata del compositore polacco – lo portasse perentoriamente all’attenzione della ribalta internazionale, in un lontano Busoni in cui, come spesso accade nelle logiche imperscrutabili dei concorsi, erano stati proprio i cavalli di razza i primi a finire azzoppati. A colpirci era stato il fiuto indagatore, il rigore scientifico, al servizio di mani di fuoco, con cui quel ventenne scandagliava il testo fino alle viscere. Oggi, oltre dieci anni dopo, ne abbiamo ritrovato lo spirito acuto, l’intelligenza viva, la sottile inquietudine con cui entra nelle frasi e ne sollecita il corso, disegnandone con fraseggio sempre nobile linee nervose, mercuriali, insieme alla raggiunta maturità di chi ha imparato a gestire un temperamento per natura refrattario alla moderazione.
Al cospetto del monumento brahsmiano, che la conduzione di Matvienko asciugava, sin dal profetico rullo di percussioni su cui si apre l’ampia, tempestosa introduzione all’ampio primo movimento, addomesticando e ricomponendo, non senza qualche difficoltà d’insieme, l’esaltata temperie della sua componente primigenia in un battito più regolare, più spento, il pianista goriziano entrava non da solista ma da strumento tra gli strumenti, cercando e, a tratti, trovando nel serrato dialogo con le varie sezioni, nel gioco di intrecci, di echi tra il pianoforte e i fiati, ad esempio, che corre lungo l’intera direttrice dell’opera, quell’omogeneità di sguardi, di voci, che proprio la matrice sinfonica del Concerto custodisce. Un approccio, tuttavia, che lasciava affiorare solo parzialmente, da un tessuto così fitto da farsi straripante, l’anima notturna, sovreccitata, del suo spirito e che, non senza qualche titubanza nella risoluzione delle tremende difficoltà tecniche, oltre che con un peso sonoro piuttosto esile per espugnare una simile parete, si faceva largo, dall’austero annunciarsi fino al torrenziale racconto che ne sarebbe scaturito. A tanto grandioso affresco, insieme a qualche grado di calore, nel racconto appassionato quanto conciliante dei suoi tre pannelli, culminanti nell’incantato Adagio centrale, mancava anche qualche punto di colore, bronzeo e carnale anche nei momenti di maggiore intimismo, per non finire sommerso dal peso dell’orchestra. Agli applausi scrocianti di un pubblico assai numeroso – merito anche nel felice coinvolgimento di tanti studenti universitari, presenti con la loro carica di entusiasmo – Gadjiev ricambiava con la delizia, tutta chopiniana, di una Mazurka. La terza dal grappolo dell’op.59; un universo in bottiglia, introverso, rapsodico, selvatico, trasudante un timido, incrollabile orgoglio.
Dall’altro capo della serata, giungeva la celeberrima vicenda shakespeariana riletta con cruda, infallibile efficacia da Prokofiev, attraverso un’orchestrazione di straordinaria forza evocativa. Una girandola di voci, personaggi, fugaci apparizioni, situazioni e atmosfere contrapposte, animate da un incalzare narrativo di implacabile forza. Una parabola perfetta, disegnata a partire dall’annunciarsi delle due famiglie rivali - nel bellicoso sfoggio degli ottoni in parata, con gli archi come spade, spavaldi, vanitosi, pronti ad uscire dal fodero e a colpire - e procedente per sequenze sceniche. I rumori lontani della città al suo risveglio, persone e cavalli sull’acciottolato della Verona medievale, la scena da interno con l’impertinente, bizzosa innocenza di una Giulietta evocata a rapinose, leggere folate di vento. L’estatica tenerezza del madrigale, a fare da cerniera, con il suo canto disteso e le sottili ombre, già oscure, covanti sottotraccia, all’annunciarsi delle maschere, come sempre vere nella finzione del travestimento, tra danza e visioni guerresche, tra commedia e dramma. E, fatata, vaporosa, ecco la scena del balcone, con i passi felpati di Romeo sotto casa Capuleti, tradotti in un’orchestra in ascolto, punteggiata di sussulti, fino al tuffo al cuore, impalpabile nell’evanescenza dei violini, dell’apparire della fanciulla, il mondo sospeso di fronte alla sua aurorale bellezza. E la morte di Tebaldo, con l’unisono funereo degli archi come chiave di volta e miccia innescata al precipitare degli eventi, con le sciabolate dei violini, l’impietosa sentenza delle percussioni, ad avviare una sorta di danza macabra, una folle corsa nel gorgo della vita, nelle sue spirali che conducono verso la morte di entrambi. Sublimata quella di Giulietta, da eroe greco quella di Romeo
Appalusi scroscianti. Il sipario è alzato. La Stagione della Toscanini ora entra nel vivo.