Recensioni - Cultura e musica

Don Pasquale all’Amarone

Il regista Antonio Albanese sceglie un’ambientazione veronese per il capolavoro donizettiano

Al nostro arrivo al Teatro Filarmonico per assistere alla quarta replica di Don Pasquale di Gaetano Donizetti, titolo inaugurale della stagione invernale della Fondazione Arena di Verona, siamo stati accolti dall’annuncio che, causa un’agitazione sindacale, lo spettacolo sarebbe iniziato con un’ora di ritardo. Senza volerci addentrare nel merito della questione e delle responsabilità, ci permettiamo di osservare che questi episodi non aiutano il teatro in generale e soprattutto un teatro, quale il Filarmonico, sempre più  impegnato a riconquistare il proprio rapporto con il suo pubblico (la platea  era piena per metà e i palchi sostanzialmente vuoti).

Vero è che, rispetto alla sospensione in toto dell’opera, ritardare l’inizio è sicuramente una forma di protesta più civile e rispettosa di chi ha già acquistato il biglietto.
Ad ogni modo, trascorsa la pausa forzata, sono bastate le prime note dell’ouverture staccate dalla bacchetta di Omer Meir Wellber a farci dimenticare tutto. Il direttore israeliano ha talento da vendere ed è, a mio avviso, la figura più interessante tra quante si sono succedute negli ultimi tempi sul podio veronese. Il suo Don Pasquale è ricchissimo di colori e di sfumature, i tempi sono sempre appropriati e raramente si è sentita l’orchestra della Fondazione Arena sfoggiare un suono così omogeneo e compatto. Unico neo da registrare: il volume, in alcune occasioni  troppo alto al punto da coprire le voci, ma questo non basta ad inficiare una prova comunque interessante.
Il cast vocale era capitanato da  Simone Alaimo, un Don Pasquale di lungo corso, che scenicamente  delineava un personaggio a tutto tondo, perfettamente coerente e credibile, ma che esibiva un organo vocale appannato e privo dello smalto di un tempo.
Al suo fianco Barbara Bargnesi, che sostituiva la prevista Irina Lungu, si è egregiamente disimpegnata nel ruolo di Norina.
Molto convincente il Malatesta di Mario Cassi: emissione sicura, varietà nel fraseggio e credibilità sulla scena gli sono valsi la palma di miglior interprete della serata.
Meno convincente l’Ernesto di Edgardo Rocha che si riscatta nel duetto del terzo atto dopo che i primi due erano sembrati un po’ opachi.
Funzionale il Notaro di Antonio Feltracco e buona nel complesso la prova del coro diretto da Armando Tasso, nonostante l’esecuzione in platea di “Che interminabile andirivieni” sia stata caratterizzata da alcuni sfasamenti con l’orchestra.
Gradevole e corretta, ma non particolarmente innovativa, la regia di Antonio Albanese che, per uscire dalla più classica delle tradizioni, ha scelto di spostare l’azione da Roma alle colline della Valpolicella, facendo di Don Pasquale un produttore di Amarone e di Norina una contadina impegnata nella vendemmia. La casa e il giardino sono diventate quindi nelle scene di Leila Fteita la cantina e la vigna ed anche gli altri personaggi sono stati adattati di conseguenza: Malatesta il contabile ed Ernesto l’enologo. A loro è stato aggiunto un quartetto di servitori capitanati da una vecchia governante, autori di una serie di garbate gags che sono state però praticamente ignorate dai protagonisti e quindi hanno faticato a fondersi con lo svolgimento della vicenda.
Per il resto tutto si è mosso secondo gli schemi di tanti Don Pasquale già visti, nel totale rispetto della musica e senza mai stravolgere la drammaturgia.
Tradizionali con qualche eccesso kitsch i costumi di Elisabetta Gabbioneta: l’abito rosso elegante di Norina era praticamente identico a quello delle cameriere dei ristoranti cinesi.
Ottima la risposta finale del pubblico che ha tributato a tutti i protagonisti applausi meritati e convinti.

Davide Cornacchione 19 dicembre 2013