Recensioni - Cultura e musica

Elina Makropulos immortale a Firenze

Per la terza volta Věc Makropulos sul palcoscenico del comunale in un riuscito allestimento firmato dalla coppia Mehta Friedkin

A conferma della sua particolare vocazione nei confronti del teatro di Leoš Janáček, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha allestito in questi giorni, per la terza volta dalla sua “prima” italiana, una delle opere più interessanti del primo Novecento, ovvero Věc Makropulos.
Tanto per dare un’idea di quanto, al contrario, sia poco frequentato questo titolo sui nostri palcoscenici, basti pensare che il suo debutto alla Scala risale solo a due anni fa.
Per l’occasione il Maggio Fiorentino ha scritturato la cantante tedesca Angela Denoke, che già si era distinta nel ruolo di Emilia Marty (ovvero Elina Makropulos) alla Scala nel 2009 e a Salisburgo la scorsa estate, e che anche in quest’occasione si è confermata interprete ideale.
 

Emilia Marty è l’incarnazione della diva, della grande artista, il cui fascino conquista chiunque entri in contatto con lei, ed in questo la Denoke è perfetta, sin dalla sua prima apparizione in un lungo abito nero, a catalizzare su di lei l’attenzione di tutto il teatro. L’ identificazione con il personaggio è pressoché totale, grazie ad una recitazione tanto misurata quanto efficace in ogni suo minimo gesto. Anche dal punto di vista vocale la Denoke si conferma interprete di riferimento: un canto che si piega ad ogni inflessione e sfaccettatura le consente di affrontare con altrettanta efficacia sia la cinica spavalderia iniziale che il drammatico monologo conclusivo. Qualche piccola smagliatura nel registro acuto, peraltro sempre perfettamente risolta, non ha minimamente messo in discussione un’interpretazione assolutamente maiuscola.
Anche per quanto riguarda gli altri ruoli la compagnia scritturata si è mostrata estremamente valida ed omogenea. Miro Dvorsky (anche lui già sentito nel Makropulos scaligero), è un Gregor convincente,   dotato buoni mezzi vocali nonostante gli acuti non siano sempre ineccepibili, mentre Andrzej Dobber si disimpegna molto bene nell’articolato ruolo di Prus.
Molto azzeccate le caratterizzazioni di Hauk-Šendorf e di Vítek, rispettivamente interpretati dal caricaturale Karl Michael Ebner e dallo spigliato Jan Vacik, che con la loro presenza hanno contribuito ad alleggerire il tono cupo della commedia. Molto efficaci nei loro ruoli anche il Dottor Kolenatỳ di Rolf Haunstein, la Kristina di Jolana Fogašová ed lo Janek di Mirko Guadagnini.
L’orchestra del Maggio, ottimamente diretta da Zubin Mehta ha esibito un suono pieno, incisivo, a tinte scure. Degli archi è stato accentuato il registro grave, quasi a voler rimarcare la componente espressionista della partitura. Nonostante questo la concertazione è stata molto attenta a seguire e sottolineare i singoli passaggi mostrando una totale simbiosi con quanto avveniva sul palcoscenico.
La regia di William Friedkin, da canto suo, ha avuto il merito di lavorare molto sugli interpreti e sulle dinamiche interprersonali.  Il testo di Čapek/ Janáček infatti,  già perfettamente compiuto di per sé, non necessita di una regia critica, ed in questo Friedkin è stato molto abile nel non forzare mai sui significati, concentrandosi invece su di una efficace rappresentazione. Ogni azione, ogni passaggio sono stati perfettamente cesellati grazie anche all’eccellente resa dei cantanti, e per questo motivo il livello di attenzione e di tensione drammatica non hanno mai mostrato alcun cedimento. Da questo punto di vista emblematico è stato il secondo atto che, nonostante sia stato ambientato nella vastità del nudo palcoscenico del Comunale, senza quinte né quadratura, è stato adeguatamente riempito dalla perfetta interpretazione dei singoli protagonisti.
Più classico il primo atto in cui le architetture sghembe ed asimmetriche dello studio di Kolenatỳ erano di matrice squisitamente espressionista, mentre qualche perplessità ha suscitato il terzo, che mi è sembrato statico e poco incisivo. È vero che lo stesso Janáček nell’ultima scena aveva di molto ridimensionato tutti gli altri personaggi rispetto all’originale di Čapek, con l’intenzione di concentrare l’attenzione solo sulla Marty; tuttavia la sensazione che ho avuto è stata quella che in questa circostanza Friedkin abbia un po’ temporeggiato in attesa dell’effetto finale in cui Emilia/Elina inizia a bruciare insieme alla pergamena contenente la formula dell’immortalità, quasi che la “cosa” Makropulos fosse Elina stessa e non il documento.
Interessante si è rivelato anche l’apporto delle suggestive fotografie di Rocky Schenck, che durante il preludio del primo atto hanno idealmente aperto alcuni squarci sulle vite passate di Elina Makropulos, sempre in fuga dalla sua precedente identità e sempre alla ricerca di una nuova E.M. da cui ricominciare.
Il pubblico, purtroppo non numerosissimo (e questo è stato un peccato, soprattutto in ragione della qualità dello spettacolo)  ha applaudito con convinzione dedicando punte di entusiasmo a Mehta e alla Denoke.

Davide Cornacchione 30 ottobre 2011