Straordinario apologo morale di Eastwood, che si identifica con la sua nazione e ne assume le colpe.
E’ invecchiato Clint, e le profonde rughe che gli solcano il viso segnano il suo personaggio Walt Kowalski, mirabile unione di nomi, il fantastico Walt Disney e il tragico Kowalski di Marlon Brando (“Un tram che si chiama desiderio”), due immagini del cinema e dell’America.
Ed è la bandiera della sua nazione che Walt Kowalski tiene orgogliosamente in vista nella sua veranda nei sobborghi di Detroit, oltre alla Gran Torino, una vecchia Ford del 1972, praticamente nuova di zecca, che simboleggia il suo passato di operaio nelle fabbriche Ford.
Dopo la morte della moglie a Walt è rimasta solo la sua solitudine, dato che disprezza figli e nipoti e non sopporta i vicini, i “musi gialli” della comunità sino-vietnamita Hmong. Non sa far altro che ringhiare, chiuso con ostinazione nel suo dolore privato e nella sua storia personale di veterano della guerra in Corea, dove ha appreso “molto sulla vita e la morte”, come ripete al giovane sacerdote che ogni tanto va a trovarlo per una promessa fatta a sua moglie. Ciò che gli interessa è difendere il suo territorio da questi stranieri, e l’occasione gli si offre quando il giovane Thao, ragazzo timido e spaurito, viene costretto da una banda di teppisti locali a tentare di rubare la Gran Torino. Ma questo episodio fa sì che Walt entri in contatto con i suoi vicini, con i quali scoprirà di avere “molte più cose in comune che con quei depravati dei suoi figli”. E Thao e la sorella Sue diventeranno i suoi riferimenti affettivi, che egli proteggerà e ai quali indicherà la via da seguire, in un finale spiazzante, di una tragicità e poesia assolute. Il pistolero di Sergio Leone, l’ispettore Callaghan e il William Munny de “Gli spietati” imbraccia ancora le sue armi, ma è passato attraverso la guerra vera, in cui ha conquistato una medaglia per avere ucciso uomini innocenti, e ormai è “troppo sporco di sangue”.
Saluterà le persone come John Bernard Brooks ( John Wayne) ne “Il pistolero”, ma seguirà un’altra via, che forse è la via del nuovo corso di Obama, ed è davvero strano che un conservatore fordiano come Clint Eastwood sia più lucido e onesto di tanti progressisti, che lo hanno snobbato alla cerimonia degli Oscar.
Eastwood ,ottimamente doppiato da Michele Kalamera, dirige con grande respiro, in modo secco e magistrale, non concedendo nulla al patetico e al sentimentalismo, ed è il degno ( e l’unico) erede del gigante John Ford. Una lezione di stile e di vita, di cui dobbiamo essergli grati.
Elena Bettinetti