Recensioni - Cultura e musica

Georgy Tchaidze, Wanderer attraverso la musica di Schubert e Brahms

Il pianista russo in un indimenticabile concerto a Casalmaggiore

Canto, discanto, incanto. Un racconto proteso sulle verità nascoste, affascinato dalle ombre. Il recital pianistico che, all’interno del cartellone concertistico organizzato in collaborazione con gli Amici delI’International Festival,  Georgy Tchaidze ha regalato lo scorso 19 marzo al pubblico del Teatro Comunale di Casalmaggiore, un pubblico che per quasi due ore di musica ha trattenuto il fiato, era una galleria di immaginari Lieder ohne Worte, frammenti ricomposti e riannodati con il filo magico di un legato caldissimo, dentro al cuore del tasto, spesso su una corda, capace di andare ad interrogare senza mediazioni il centro del suono per scaldarlo al fuoco di un’impellente urgenza narrativa e farne, così, voce, silenzio, attesa. Le facce speculari di Schubert e Brahms, sentinelle di un cammino erratico attraverso pagine intrecciate a doppio filo in cui perdersi e ritrovarsi di continuo, parevano anime impossibili da sciogliere, tanto la tinta dell’uno richiamava l’eco dell’altro. Sipario era il viaggio nell’autunno schubertiano dell’ultimo Impromptu op. 142, pervaso dai ricordi, avvelenato da rimpianti dolcissimi; il canto del congedo. Di lì a poco, sulla porta di quel mondo, comparirà il Wanderer, quello che condurrà l’ascoltatore attraverso le stazioni della Winterreise, nel glaciale inverno del cuore. Tchaidze sembrava cercarne, all’orizzonte, la figura baluginante, evocata nel respiro di una cordiera viscerale, una cordiera mondo, sollecitata da una narrazione implacabile, tesa a forgiare la frase in ogni piega del suo mutevole sentire. Sul sentiero, ecco gli otto Klavierstὒcke op. 76 di un Brahms che mai come in questa esecuzione sembrava preparare il terreno verso le estreme galassie dell’op. 118: Capricci e Intermezzi, universi rapsodici e inquieti nel ribollire aggrovigliato di una confessione che solo l’armatura di un ferreo contrappunto tiene insieme - tra mordace humor, barbagli grotteschi e commosse rievocazioni - slanci dalla campata sinfonica subito sublimati verso approdi più rarefatti. Lἅndler mancati, storie che parevano incamminarsi verso una notte fitta, abissale. Ancora Brahms, questa volta con la quarta Ballata op 10, magnifica premonizione, nelle le sue dissonanze ipnotiche, del tempo che verrà. E, in un disegno circolare, eternamente destinato a ripercorrere sé stesso, lo Schubert della Sonata in Do minore D 958, scandita dal ticchettio impercettibile del suo batticuore, sfogliata nella fragrante bellezza di ogni suo petalo, nella luce chiaroscurale di un pedale dosato con alchemica finezza a disegnare ogni umore di questo possente affresco. La fine del viaggio, là dove la maschera cade e ad insinuarsi è il turbamento, il trasalire del cuore che nell’Adagio si faceva livida disperazione, a malapena mitigata dal malcerto, irrisolto Menuetto con Trio, e nel gelido turbinare dell’Allegro finale giungeva, nel perpetuum mobile di un’inesorabile cavalcata a perdifiato, al capolinea. Una danza sfrenata, per molti aspetti consorella e consorte dell’epilogo che chiude Der Tod und das Mἅdchen.  Là, quattro archi, qui le moltitudini un pianoforte cosmico. Un concerto degno delle più grandi sale europee, sul quale l’arcano svolazzo dello schumanniano Vogel als Prophet invitava al silenzio dell’Abschied.