Torna la Gioconda di Amilcare Ponchielli in Arena per l’ottantatreesimo festival lirico. Un’opera di tradizione per la cavea veron...
Torna la Gioconda di Amilcare Ponchielli in Arena per l’ottantatreesimo festival lirico. Un’opera di tradizione per la cavea veronese ma sempre più rara sui palcoscenici italiani sia per la difficoltà di reperire un cast valido sia per gli strali eccessivi dei puristi della filologia contro certe opere del nostro verismo.
Ora Gioconda è sì opera truculenta, drammone infarcito di personaggi scolpiti con l’accetta in preda a passioni strabordanti e a visioni della vita e dell’amore univoche che possono solo portare o alla felicità più completa o all’annientamento e alla morte. Ma Gioconda è anche grande musica e grande dramma una volta che lo si guardi con gli occhi dell’incanto compiendo quell’operazione mentale sempre richiesta allo spettatore d’opera: e cioè quella di dar credito alla situazione, di credere al personaggio, di farsi coinvolgere. Certo Gioconda non è opera che si possa guardare con gli occhi della mente, ma solo con gli occhi della passione che va oltre tutte le incongruenze del libretto e l’eccessiva tragicità dei personaggi.
Quando questo accade improvvisamente l’opera esplode in tutta la sua bellezza, con una musica straripante, arie tese, personaggi giganteschi, una Venezia lugubre e decadente in cui tutto è possibile, un grande affresco a tinte forti dove la grandezza dei personaggi sta proprio nella loro esasperata vocalità. Per questo per Gioconda servono grandi voci, ma soprattutto servono voci drammatiche, tese, sonore che non hanno paura di strafare, ma soprattutto di rischiare. E questo l’altra sera è successo in Arena con un cast omogeneo in una interpretazione finalmente italiana, cantata fino in fondo, rischiata, qualche volta uralata ma completamente in linea con la passione dell’opera.
Barnaba era un Carlo Guelfi in serata di grazia, dizione scolpita e chiarissima anche nell’anfiteatro areniano, voce sicura, pronta, sonara, timbratissima ma soprattutto grande interprete, grande attore, sicuramente il mattatore della serata. Gli teneva degnamente testa la Gioconda di Andrea Gruber dal grande slancio passionale, acuti sicuri e svettanti, giusto piglio da diva. La Cieca era una Elisabetta Fiorillo dalla voce scura e ampia. Ottimi anche Francesca Franci nel ruolo di Laura e Marco Spotti, timbrata e imponente voce di basso, come Alvise. Marco Berti era un Enzo Grimaldo di grandi mezzi vocali e tecnica sicura, affronta tutta la partitura con piglio spavaldo, smorza bene i suoni, fraseggia in modo appropriato e riceve un’ovazione per l’aria “Cielo e Mar” cantata senza risparmio e con bella linea di canto. Completava lo spettacolo la celeberrima danza delle ore coreografata da Gheorghe Iancu con eleganza e sobrietà e ottimamente interpretata da Guillaume Cotè e Soimita Lupu.
La parte visiva era affidata per regia, scene e costumi a Pier Luigi Pizzi, che rifuggendo dalla tentazione della grandiosità areniana, ha costruito uno spettacolo tutto incentrato su colori grigi e brumosi inventandosi una specie di conchiglia sullo sfondo che opportunamente illuminata permetteva degli splendidi effetti di controluce. Pizzi si lascia andare al colore solo nelle scene di massa del carnevale, per il resto sposa completamente le atmosfere cariche di tragicità dell’opera con una serie di scale spoglie e grigie dietro cui si staglia rosso solo il brigantino dedicato alla fuga impossibile dei due tragici amanti. Sicuramente il miglior risultato per una regia tragica in arena dal Macbeth del 1997 sempre affidato a Pier Luigi Pizzi.
Una splendida serata insomma in cui si è tornati a respirare un’atmosfera da vera opera “all’Italiana” anche grazie all’attenta concertazione di Donato Renzetti che si è messo a servizio della musica senza mai dimenticare i cantanti e il rapporto fra buca e palcoscenico.
Unica remora lo scarso pubblico presente, sempre tenendo conto degli spazi areniani. Cosa che dovrebbe far riflettere la Fondazione sull’opportunità di una diversa politica di prezzi per le opere di alto spessore culturale ma meno note al grande pubblico.
R. Malesci
(13 Luglio 2005)