Recensioni - Cultura e musica

Hereafter

Eastwood tra Frank Capra e Charles Dickens, esplorando la morte per rendere sopportabile la vita

Un film di Clint Eastwood.
Con Matt Damon, Cécile De France, Joy Mohr, Bryce Dallas Howard, George McLaren, Frankie McLaren, Thierry Neuvic, Marthe Keller, Jay Mohr, Richard Kind, Charlie Creed-Miles, Lyndsey Marshal, Rebekah Staton, Declan Conlon, Marcus Boyea, Franz Drameh, Tex Jacks, Taylor Doherty, Mylène Jampanoï, Stéphane Freiss, Laurent Bateau, Steve Schirripa, Joe Bellan, Jenifer Lewis, Tom Beard, Andy Gathergood, Helen Elizabeth, Niamh Cusack, George Costigan, Claire Price, Surinder Duhra, Sean Buckley, Paul Antony-Barber, Selina Cadell, Thomas Price, Céline Sallette, Celia Shuman, Joanna Croll, Jack Bence, Derek Jacobi


Drammatico, durata 129 min. - USA 2010.


Tre vite parallele scorrono in questo film:quella di George Lonegan (Matt Damon), sensitivo che ha scelto di fare l’operaio nella città di San Francisco, perché considera il suo “dono”, come lo chiama il fratello, una condanna, e frequenta un corso di cucina
italiana per sperimentare altre percezioni,  quella di Marcus (Frankie McLaren), ragazzino inglese che ha perso il fratello gemello e cerca di entrare in contatto con lui, e quella di Marie Lelay (Cécile de France), giornalista parigina che sperimenta la morte e poi “risorge” grazie a un massaggio cardiaco. Tutti e tre si incontreranno in un festival letterario
 a Londra, dove George visiterà la casa di Dickens, di cui ascolta i libri la sera, nel silenzio del suo appartamento, dalla voce di Derek Jacobi (doppiato benissimo, ma non so il nome perché, alla fine del film, la frenesia degli spettatori che si alzano per andarsene copre, con mio grande disappunto, i titoli di coda )
Ed è una fiaba dolce e drammatica il film, in cui gli estremi si toccano, gioia e dolore, indifferenza e passione, vita e morte, sia perché
le abbiamo dentro di noi in eterno contrasto, sia perché la natura esterna ci è leopardianamente nemica (lo tsunami in Indonesia), sia perché la cattiveria del genere umano (il terrorismo politico o il dileggio dei ragazzi di strada) ci insegue nella quotidianità, perché tutti siamo coinvolti.
George si ritroverà operaio in esubero, davvero forse condannato a esercitare il suo dono, e Marie capirà che il successo, così come arriva, può andarsene, perché chi credevi vicino a te ti abbandona e diventa un estraneo. Forse il finale, nella visione “reale” di George, scade un po’ nella retorica zuccherosa dell’happy end, ma è indubbio il coraggio morale di Clint nell’avventurarsi in un terreno infido, per un laico, come quello dell’aldilà.
Egli, attingendo alla sceneggiatura di Peter Morgan, pone delle domande,
perché i morti vivono dentro di noi e ci accompagnano nel difficile “mestiere di vivere”, come lo definiva Cesare Pavese.
La regia ha il consueto tranquillo respiro fordiano, e gli attori, plasmati dal suo tocco, recitano con naturalezza e intensità.
Il film non ha la potenza drammaturgica  di Gran Torino (il suo capolavoro secondo me) , ma il cavaliere vendicatore de Gli spietati ha deposto la pistola, e pensa a quando varcherà l’ultima soglia. 
 Senza nessuna risposta, ma accettando il mistero.

Elena  Bettinetti