Recensioni - Cultura e musica

IL PAPA’ DI GIOVANNA

Nell’Italia del primo Novecento l’ ipocrisia e il perbenismo borghese si intrecciano con la storia sociale del paese.

Italia 2008  
Durata:  104
Sceneggiatura e regia: Pupi Avati 
Cast: Silvio Orlando, Francesca Neri, Alba Rohrwacher, Ezio Greggio
Musiche:  Riz Ortolani 
Distribuzione:  Medusa


Bologna 1938. Michele Casali (uno straordinario Silvio Orlando), mite e frustrato professore di disegno, scrive lettere al pittore Morandi senza mai ricevere risposta, e circonda di un amore totale e incondizionato la timida e insicura figlia Giovanna
 ( un’intensa Alba Rohrwacher), il cui sguardo racchiude un’inquietudine angosciante e patologica. La madre (una Francesca Neri non del tutto convincente) è una casalinga bella e insoddisfatta, quasi gelida nella sua anafettività, incapace di comunicare con la figlia.
Il padre, pur di procurare gratificazioni alla figlia, non esita a promettere agevolazioni scolastiche ad un giovane, a patto che si dedichi un po’ a Giovanna. Ma essa si vendicherà con ferocia e senza pentimento nei confronti di una compagna di scuola, colpevole di rapporti sessuali con il giovane.
Il padre la seguirà nel percorso giudiziario e poi manicomiale, con una tenerissima dedizione, e arriverà a “donare” sua moglie a un poliziotto fascista, un buon vicino di casa che gli tende sempre una mano nella quotidianità e poi nella disgrazia.
Il poliziotto è impersonato da Ezio Greggio, ben diretto e volenteroso, ma non all’altezza del ruolo, ci si aspetta sempre di veder comparire una velina da qualche parte. Alcuni personaggi sono troppo “bruciati” dalla televisione.
Gli eventi che portano alla tragedia  maturano nel clima soffocante, ipocrita e perbenista del periodo fascista, con una accurata ricostruzione d’epoca  e d’ambienti, forse l’aspetto migliore del film. Il manicomio è squallidamente reale, e non troppo lontano da noi. 
Pupi Avati ritorna alla sua Bologna e indaga con delicatezza  nell’anima nascosta dei suoi personaggi, immersi in un inferno quotidiano che dà ad alcuni momenti un’atmosfera e sguardi da film horror, genere in cui Avati si è cimentato con maestria (La casa dalle finestre che ridono).
E la liberazione alla fine della guerra lascia intravedere una triste resa dei conti, in cui anche personaggi innocui come il poliziotto devono pagare per colpe non loro. Ma non era un film con risvolti politici che il regista voleva fare, egli si limita a osservare la situazione senza dare giudizi, forse riandando con la memoria alla sua giovinezza.   
 Il finale (ormai siamo negli anni cinquanta)  è spiazzante e illogico, da soap opera, ed è uno dei punti deboli del film, che resta così irrisolto, e dà un sapore dolciastro a una vicenda agra e cupa. 
Il film ha come pilastro l’interpretazione di Silvio Orlando, meritatamente premiato con la Coppa Volpi.

Elena Bettinetti