L’allestimento di Die Walküre che ha inaugurato la stagione del Teatro alla Scala convince molto di più rispetto al Rheingold che alcuni mesi prima aveva inaugurato il nuovo progetto del Ring wagneriano
Preceduta da un certo scetticismo da parte di chi aveva assistito all’interlocutorio Rheingold la scorsa primavera, Die Walküre, prima giornata del Ring firmato Barenboim – Cassiers, che ha inaugurato la stagione del Teatro Alla Scala, si è rivelata decisamente più convincente e coinvolgente del prologo.
Le idee di Guy Cassiers, regista e scenografo, già accennate nella tappa precedente, sono state qui sviluppate con maggior chiarezza, senza peraltro rinunciare a soluzioni visive di particolare suggestione, grazie anche ad un massiccio uso di videoproiezioni, firmate da Arjen Klerkx e Kurt D’Haeseleer, che però non sono mai risultate eccessive o invadenti.
Cassiers immagina questo Ring come figlio della violenza che ha attraversato tutto il XX secolo e della sua rappresentazione attraverso le immagini, per cui Wotan si trova arroccato in un Walhalla da cui assiste ai bombardamenti notturni della guerra del Golfo, mentre la cavalcata delle walkirie è caratterizzata da un ammasso di corpi e di membra attorcigliate che ricordano certe incisioni dell'Inferno dantesco di Gustave Doré.
Ma queste sono solo alcune delle innumerevoli soluzioni che hanno contraddistinto questo allestimento, tra cui la foresta di lance o la casa di Hunding, videoproiettata su pannelli mobili dai quali uscivano ed entravano i personaggi creando effetti suggestivi.
Come contraltare si può dire che questo tipo di impostazione abbia in parte penalizzato il lavoro sui cantanti, soprattutto nel primo atto, nel quale la preoccupazione principale sembrava quella di farli restare nella luce giusta per creare quel gioco di ombre che già avevamo visto nel Rheingold; mentre la tanto temuta presenza dei ballerini questa volta si è risolta in maniera abbastanza anonima.
Pur non trattandosi quindi di un Ring destinato a rivoluzionare l’interpretazione wagneriana, abbiamo tuttavia assistito ad una Walküre che è riuscita a trasformare le perplessità del dopo Rheingold in curiosità per il prossimo Sigfried.
Per quanto riguarda l'aspetto musicale invece: capolavoro ci si aspettava e capolavoro è stato. Innanzitutto grazie alla magnifica concertazione di Daniel Barenboim che ha proseguito nella linea impostata nel prologo: la proverbiale enfasi wagneriana è stata stemprata in un caleidoscopio di colori che scaturivano da un minuzioso lavoro orchestrale, che si sposava ad una grande attenzione nel mantenere una narrazione sempre attenta al susseguirsi degli eventi. Un connubio che ha dato vita a momenti di straordinaria poesia, raggiungendo il suo apice nel dialogo Siegmund-Brünnhilde e nel finale del terzo atto.
Di pari livello il cast vocale, su cui spiccavano tre interpreti femminili di prima grandezza. Nina Stemme è attualmente la migliore Brünnhilde disponibile: la voce non avrà lo squillo di una Birgit Nillson ma la sua capacità di fraseggio unita ad una grande disinvoltura nel salire fino agli acuti più impervi la consacrano ad interprete di riferimento della valchiria wagneriana.
Discorso analogo per Waltraud Meier, il cui unico termine di confronto può essere sé stessa nelle recite scaligere del 1994. Se allora avevamo ascoltato una Sieglinde che toccava le vette del sublime, adesso, dopo 15 anni la voce forse non può più vantare quella freschezza ma l’interprete è ulteriormente cresciuta e basta il suo apparire sul palcoscenico per calamitare l’attenzione su di lei.
Piacevole sorpresa si è rivelata la Fricka di Ekaterina Gubanova, mezzosoprano dalla voce estremamente affascinante che ha saputo imporsi nonostante il suo ruolo in quest’opera sia limitato ad una sola scena.
Dal punto di vista maschile rimarchevole è stata la prova di Witalij Kowaljow, giunto in corso di prove a sostituire il previsto René Pape. Il suo Wotan, vantando una voce estremamente duttile e ben timbrata, ha saputo mostrare sia il lato autoritario che quello più tenero ed intimista di padre e uomo in preda ai propri dubbi.
Meno convincenti le prove di John Tomlinson, un Hunding eccessivamente brutale, e di Simon O’Neill, apparso in più occasioni in difficoltà nel sostenere adeguatamente il ruolo di Siegmind.
Al termine appllausi calorosissimi con (meritate) ovazioni per Stemme, Meier e Barenboim.
Davide Cornacchione 2 gennaio 2011