Recensioni - Cultura e musica

Il sublime Beethoven di Filippo Gamba

Con l'op. 101 e l'op. 106 il pianista veronese prosegue nel suo percorso beethoveniano a Casalmaggiore

La premessa è una nota di colore. Il Maestro si accorge di aver dimenticato gli occhiali da lettura. Sul leggio, le note gli appaiono un groviglio sfuocato, difficile da penetrare. In sala scatta un’immediata gara all’occhiale sostitutivo, ma senza successo. Il concerto ha inizio. Il viaggio beethoveniano, qui al suo penultimo miglio, finalmente salpa. E subito l’orizzonte si svela. Chiarissimo, oltre la nebbia di lenti mancanti. Un viaggio senza trionfalismi, trepidante e straordinariamente vivido, danzante sul ghiaccio di una strumentalità via via più insidiosa così come sul balenare di opposte correnti. Lo scorso anno, lo avevamo lasciato, nel suo periplo attorno alle Trentadue Sonate beethoveniane, sul limitare dell’op. 101. E da qui, la scorsa domenica 2 aprile, lo abbiamo ripreso. Il pianoforte di Filippo Gamba, applaudito ospite di un intenso concerto di chiusura della Stagione concertistica del Comunale di Casalmaggiore, continua ad essere un miracolo di misura, saggezza, trepidante discrezione.

Mani artigiane capaci di costruire cattedrali a partire dalla singola pietra, e di risvegliare nella cordiera brucianti domande. Via allora le stucchevoli asprezze, le grasse risate, le consonanti chiassose. A distanza di una manciata di mesi, la luce sul dittico dell’op.90 ne amplificava a dismisura la tensione introspettiva fino a proiettarne la narrazione in una lontananza scorciata, di reminiscenza. E la sagoma schubertiana, già prima così ben aleggiante, ora si faceva ombra lunga, pervasiva tra lo smarrimento del primo movimento e l’intimismo affabile che si dipana, ricorsivo, tormentato, nel secondo. Sul suo congedo sommesso, Gamba già pareva presagire l’annunciarsi dell’op.101, di quel suo passo esitante con cui, nella comune tonalità della precedente consorella, prende vita per poi, subito, addentrarsi in un ben più fitto paesaggio dove ad attendere l’ascoltatore è una lussureggiante molteplicità fatta di trasalimenti, abbandoni, sublimi trapassi. Il roccioso, il vago, il pittoresco, il sublime. Un caleidoscopio di tinte, di situazioni espressive, che Gamba levigava sotto l’arco di un legato quasi immateriale, proteso sul silenzio, plasmato da un gioco di pedale capace di incidere anche i respiri più taciuti.

Occorre scomodare i sommi per ritrovare l’intima onestà di una così intima adesione alla voce di Beethoven, impressa in tedesco, quasi come un diario interiore. Un diario sfogliato nella solitudine di Heiligenstadt, con il rispetto che solo lo scandaglio incessante di ogni segno – scritto e sotteso – assicura. Lì, da quelle profondità, il vittorioso corpo a corpo dell’interprete con scrittura beethoveniana, con la sua tracimante materia contrappuntistica, con la sconvolgente portata delle sue confessioni personali e universali veniva nobilitato e ricomposto in un ordito morbido, gentile, mai sommerso dalle asperità a cui spesso due mani, seppur fatate, sembrano non bastare. Gamba non scappa, non bleffa, non cerca l’effetto. Affronta la materia musicale dimenticandosi di se stesso e cercando, mattone dopo mattone, le ragioni di ogni incastro. La vertiginosa cattedrale dell’op.106 si elevava da subito poderosa ma mai urticante, esaltata nell’ardito piglio sinfonico non più che nelle anse di minuziosa tenerezza, di pungente desolazione che continuamente affioravano e si inabissavano, a disegnare linee segrete, umori inaspettati, brucianti divaricazioni. Una narrazione che non dava tregua, saldata dalla potente sintassi di un pensiero capace di dare alla selva digitale ed esistenziale che ne pervade i 40 minuti di esecuzione la chiarezza della chiaroveggenza. Come a dire: l’essenziale è invisibile agli occhi.