
Una rara incisione per l'etichetta Bru Zane con la direzione di Kazuki Yamada
Ultima nata nel lussureggiante giardino del Bru Zane, Déjanire di Camille Saint Saëns è l’ennesima tessera di un mosaico – ambizioso quanto complesso – con cui il Centre de Musique française veneziano omaggia la statura di uno dei patriarchi della Francia musicale a cavallo tra i due secoli.
Tragedia lirica in quattro atti, dedicata a Ferdinand Castelbon de Beauxhostes, questa Déjanire è, in realtà, l’ultimo capitolo di una tormentata vicenda creativa, iniziata nel 1898 con le musiche di scena per l’omonima tragedia di Louis Gallet, amico e collaboratore di Saint Saëns; a quella crisalide, il compositore rimpolperà i cori e, soprattutto, curverà la scrittura al canto: un canto potente di grande forza evocativa, nei quattro atti che la costituiscono, intinto in un sapore anticato che ne rivela le ascendenze gluckiane e lo sguardo ad una classicità di cui la vicenda si nutre. Ed ecco la farfalla. “Sarà una partitura strana, per quanto ne so non esiste nulla di analogo; non piacerà affatto, oppure piacerà enormemente, non ci sono vie di mezzo”, aveva detto lo stesso Saint-Saëns presentando la tragédie lyrique all’editore Jacques Durand in vista della Prima, voluta al teatro di Monte-Carlo il 14 marzo 1911 su richiesta del principe Alberto I di Monaco.
In questa autorevole restituzione discografica, come sempre accompagnata da un prezioso apparato di note all’ascolto, il dramma amoroso che lacera il cuore dell’eroina eponima e che culminerà con la morte del marito Hercule al termine di un’intricata vicenda in cui passione, vendetta e gelosia sono indissolubilmente legate tra di loro, trova, a sostenerne la sfida, un cast di interpreti all’altezza. A cominciare da Orchestra e Coro di Montecarlo che la bacchetta di Kazuki Yamada conduce attraverso le sottigliezze austere di una scrittura che proprio nel marmo delle sue line nette, straordinariamente pure – come lo stesso Fauré aveva sentenziato – ha il suo tratto distintivo. La visione del direttore giapponese si addentra con inesorabile nitore nelle ampie campate e ne riporta a galla, al riparo da stucchevole manierismo, il sapore della più autentica tragedia lirica, lo spirito di una Francia che Saint-Saëns riproduce guardando al passato, più che al presente. Statuari, poi, i tre personaggi principali, capaci di sostenere e di domare linee di canto agguerrite: acuti svettanti, suoni gravi corposi, frasi ampissime, declamati spavaldi. È una gara di bravura tra la Déjanire appassionata di Kate Aldrich, l’Hercule luminoso di Julien Dran e la Iole oscura di Anais Constans, degnamente affiancati da Jerôme Boutillier e Anna Dowsley, rispettivamente Philocète e Phénice di gran smalto.
Nel 1911, l’accoglienza per la “nuova” Déjanire era stata salutata da un’accoglienza lusinghiera da parte dei critici, accorsi in massa nel principato di Monaco per assistervi. Ma la fortuna avrebbe cambiato vento; in quegli anni, l’opera francese stava imboccando un cammino verso la modernità che l’avrebbe portata altrove, molto lontano. Di lì a poco, la catastrofe bellica avrebbe spazzato via tutto: volti, parole, orizzonti. Per Déjanire calava una cortina di ostracismo che, fatta salva l’isolata performance del 1985 diretta da Serge Baudo per Radio France Montpellier, oggi, più di un secolo dopo, questa incisione interrompe definitivamente.
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