Secondo capitolo dell'integale per due pianoforti interpretata da Leslie Howard e Mattia Ometto
Goethe, Dante, Schiller, Beethoven. Giganti ingombranti e padri fecondi di un’umanità di cui, volenti o nolenti, non smettiamo di essere debitori. È attraverso l’immaginario proiettato dalle loro torreggianti sagome che l’ago magico di Franz Liszt si muove, costruendo trama e ordito di un arazzo musicale di abbacinante grandezza: una rappresentazione che, anche quando cucita addosso al pianoforte, in realtà guarda altrove, all’orchestra e, ancor prima, al respiro del mondo, al suo battito primigenio, alla sua voce attinta alle comunicanti fonti della letteratura, della pittura, del sogno, del viaggio.
Secondo e penultimo tassello di quell’impresa davvero titanica quale è l’integrale lisztiana per due pianoforti, il triplo CD recentemente edito da Brilliant Classics vede, giustapposti, i vertiginosi pannelli della Faust Symphonie s647 e della Dante Symphonie s648, accanto alla beethoveniana Nona Sinfonia. Un autentico sismografo dell’umano sentire che l’infallibile Liszt distilla dal patrimonio sommo dei numi tutelari del passato, curvandolo addosso alla sua personalissima visione. Pagine di una strumentalità proibitiva, non solo e non tanto per la scommessa, strettamente esecutiva, di travasare colori e resa di un’intera compagine orchestrale nel più circoscritto bacino di due sole cordiere, o per una scrittura disseminata di insidie e asperità ma, ancor prima, per la difficoltà di trovare quell’angolazione peculiare che, lungi dall’essere una costrizione di compromesso rispetto al racconto sinfonico, rappresenta per il compositore il negativo della pellicola, versante prezioso se non decisivo per scandagliare, nell’affresco di partiture immense, i riflessi dei caratteri, ricondotti alla loro più filiforme, intima, sincera essenza. Verrebbe da dire un viaggio davvero dantesco, questa volta senza la bussola virgiliana a fare da rassicurante guida verso le stelle.
Ai più, tremerebbero i polsi. Non certo a Leslie Howard, probabilmente oggi il più autorevole custode del verbo lisztiano, di cui conosce ogni frammento. E non a Mattia Ometto, ancora una volta degno, alato comprimario a fianco di Howard in questa titanica traversata. Un’intesa millimetrica, la loro, che dà rilievo e risalto ad una lettura cristallina quanto severa, smagliante senza scivolare nemmeno per un attimo nel chiassoso, capace di tenere la barra di una narrazione lineare e tesa, non sopraffatta dalle sirene di una sempre stuzzicante retorica. Una lezione di sobria lucidità in cui il duo, già nel polittico faustiano, dimostra di saper abbracciare, in mirabile sintesi, ognuna sbalzata con i tratti del proprio profilo, le mille moltitudini contrastanti e non di rado apertamente conflittuali che abitano queste pagine. La divorante inquietudine, l’inesauribile anelito di Faust, già affiorante nell’enigma dei cromatismi che ne annunciano la comparsa, la soave, bellinana apparizione di Gretchen, con il suo canto verginale, ma soprattutto la sghemba, caricaturale sagoma di Mefistofele, qui chiarissima nella filigrana del suo tessuto fatto della sostanza degli altri due, fagocitata fino a ridurla in una smorfia ridanciana.
E nella Dante Symphonie – dalle cui acque agitate emergono, qua e là, come spettri, le consorelle pianistiche Fantasia quasi Sonata e Sonata in si minore – la cifra che sembra imporsi è quella della nuda contemplazione, della tregua carica di implicazioni, che segue all’accigliato, petroso incipit di ottave e di accordi discendenti, con il loro lampeggiante bagliore in un cielo di pece. Una tensione che lentamente abbandona gli scenari luciferini per elevarsi verso atmosfere smaterializzate, trasognate. Qui, forse, dell’intero viaggio interpretativo compiuto dai due interpreti, si ha il momento più alto. Là dove Liszt, sul tracciato dantesco, ricrea quell’attesa fatta di riflessione sospesa, di ri-pensamento di sé, che è, in fin dei conti, il Purgatorio, la più umana delle condizioni. Eccoci, siamo noi. È la vita. In questo tratto, forse, l’arte (rara) della sottrazione che è il pedale di fondo di questo ascolto raggiunge il suo vertice di intensità. il culmine che conduce alle opalescenti visioni del Magnificat, dove la rutilante materia sonora si polverizza in un estatico riverbero luminoso. Nell’affrontare la beethoveniana Sinfonia, dove il compositore fa un passo a lato e da demiurgo si fa medium, trasvolatore del disegno altrui, a stupire è, subito, l’attacco austero, miniaturistico.
Quasi una dichiarazione di intenti di una visione tesa a catturare il dettaglio, il controluce, l’armatura nascosta, al riparo da secchiate di decibel e di esagitata esuberanza; una lettura interessata a pescare, dal baule a doppio fondo della Sinfonia beethoveniana e lisztiana, l’anima progettuale, l’essenza filosofica e speculativa, ancor prima che strumentale, la sua mirabile geometria fatta di incrollabile fede nel contrappunto e nelle proporzioni, nella divina legge dei numeri e delle corrispondenze. Un rigore che, dopo l’ampia campata del primo movimento – impettito, sorvegliatissimo negli stacchi dei tempi così come nell’impulso ritmico impresso - resiste agli assalti dello Scherzo, punteggiato con un nitore non scevro da una punta di divertita, tagliente ironia, così come alle sublimi distese contemplative dell’Adagio centrale. E che giunge - aurorale, laico, di una letizia diurna e mai scomposta, propria di un’umanità finalmente padrona del fuoco ricevuto dagli dei - al movimento finale, in cui anche l’irrompere dell’Ode trova la giusta incastonatura. Un Liszt che vede riscrivere i canoni dell’approccio interpretativo a queste pagine, asciugate dai troppi vapori della retorica, strenuamente difese da una muscolare volgarità. Alla festa, si uniscono ad un tratto anche Leonora Armellini e Igor Roma, complici perfetti per dare spirito e mordente alla Rákóczi Marsch.
Franz Liszt
opere per due pianoforti
Leslie Howard e Mattia Ometto
Brilliant Classics