Dimitri Ashkenazy, Emanuele Arciuli, Carlo Boccadoro protagonisti un articolato polittico musicale tra recupero delle melodie popolari e narrazione della contemporaneità
A raccontare lo spessore di questo esito discografico è, a cofanetto ancora chiuso, la rosa di protagonisti chiamati ad interpretarne le pagine. Il clarinetto di Dimitri Ashkenazy, il pianoforte di Emanuele Arciuli, la conduzione di Carlo Boccadoro alla testa de I Pomeriggi Musicali. Musicisti di razza, ma soprattutto sodali di un più ampio progetto che vede la musica contemporanea agire e interagire con la complessità del proprio tempo, territorio di confronto e di dibattito in cui negoziare nuove, provvisorie, conclusioni. Filippo del Corno qui svela senza indugi la propria poetica attraverso un polittico di quattro pannelli aperto da A coda di Rondine, sei variazioni tratte da “La Girometta”, antico canto popolare italiano di origine cinquecentesca, dialoganti attraverso processi arditi, non di rado erratici, in cui la cellula melodica di base viene scardinata e rigiocata in una fitta, sorprendente rete di nessi – varianti, più che variazioni, incastonate l’una all’altra con quel gusto di artigianale perizia artigiana appunto denominato “a coda di rondine”– di natura armonica, ritmica, timbrico-coloristica. Un’operazione di rimaneggiamento del patrimonio esistente, di appropriazione del passato solo a seguito di una decantata fermentazione destinata a condurre lontano, verso orizzonti inattesi, che caratterizza da sempre l’approccio del compositore milanese. D’altronde, l’idea del cammino, del viaggio, del territorio da scoprire e da interrogare è ancor più presente in Passages, dove a prendere letteralmente per mano l’orchestra è il clarinetto – un clarinetto insinuante, interrogativo, straordinariamente inquisitore -, costantemente in anticipo, sempre meglio informato rispetto all’informe, pulviscolare massa strumentale, nell’addentrarsi nel fitto della vegetazione urbana. E lo è, su un piano più squisitamente metaforico, nel denso Six Memos per orchestra in cui l’autore sembra fare proprio il monito calviniano delle Lezioni Americane, il suo invito a considerare insomma le sei categorie da custodire e da tramandare per il nuovo millennio. Ebbene, in quel futuro che per noi è l’oggi, del Corno stende le categorie di leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, completando idealmente quella coerenza che, dell’originario progetto dello scrittore e saggista, era rimasta solo un abbozzo. A chiudere è “Not in my name”, concerto per pianoforte e orchestra articolato in quattro movimenti, ognuno dei quali poggiante sulla scarna epigrafe di una delle quattro parole del titolo. Anziché godere del consueto olimpico piedistallo riservato al solista – che ossessivamente sembra voler intonare l’incipit del Quarto Concerto di Beethoven, prima di venir spazzato via dalla raffica dell’orchestra - il pianoforte qui sembra per molti aspetti sovvertire il rituale di un elegante scambio di equilibrate forze in favore di una scrittura ruvida, appuntita, spesso intrusiva nella narrazione. L’opera deve il titolo e la genesi ad un più ampio progetto nato a seguito degli attentati dell’11 settembre 2001 e promosso dai familiari delle vittime, nell’intento di dissociarsi dalle successive azioni militari compiute dagli Stati Uniti “in nome delle vittime”. Già diversi compositori europei hanno aderito a quello che, negli intenti, è destinato a diventare un immenso affresco di pace e di sofferta, meditata, riconciliazione. La musica, dunque, come il più fecondo degli atti di resistenza civile.
Filippo Del Corno
A coda di Rondine
Dimitri Ashkenazy - Emanuele Arciuli
I Pomeriggi Musicali
Carlo Boccadoro
Da Vinci Classics