Roberto Prosseda esplora pagine meno conosciute di concerti per pianoforte e orchestra
Martucci, Busoni, Casella, volendo includere anche soluzioni per organici più audaci. Poi? Esiste un patrimonio italiano di concerti per pianoforte e orchestra fiorito all’ombra – comunque assai elettiva – dei nomi più noti? La risposta che Roberto Prosseda vuole dare con questo pregevole lavoro discografico è un convinto sì.
Muovendosi come ama fare nella doppia veste di autorevole interprete e di fine ricercatore, il pianista di Latina compone, con il fidato aiuto della bacchetta di Nir Kabaretti, alla testa di una compagine di lusso quale la London Philarmonic Orchestra, un quadrifoglio di grande interesse che, a partire dallo scoccare dell’anno 1900, si muove sino al nostro presente indicativo, tra pagine di notevole pregio qui riportate alla doverosa attenzione e prime assolute. Ad inaugurare un viaggio disposto in ordine cronologico è la penna colta e visionaria, di Guido Alberto Fano, con un Andante e Allegro con fuoco dal respiro ambizioso nel serrato, incalzante dialogo che lo strumento solista, palesemente toccato da suggestioni rubate allo Skrjabin già inoltrato, ingaggia con un’orchestra intrisa di luce.
Con il piccolo Concerto per Muriel Couvreux, la temperie da surriscaldata si fa trasparente, aerea, amabilmente giocosa. È un’infanzia dalla semplicità ingannevole, dalla felicità solo esteriore, quella che Dallapiccola allestisce nella casa di bambole di questa pagina costruita per miniature di pochi minuti l’una, con il cesello di una scrittura essenziale, lieve, eterea come lo è il guizzante mondo dei sogni. Fuori da quel nido abitano la notte con i suoi fantasmi, la paura, la solitudine di chi è braccato. Sono gli anni dell’Italia fascista, delle leggi razziali, della genesi dei Canti di prigionia. L’universo dipinto per quella bambina di sette anni è l’affettuoso quanto doloroso sforzo del compositore e dell’uomo di ostinarsi a pensare ad un altrove possibile, ad un dopo fatto di festosi girotondi. Con il Concerto del padovano Silvio Omizzolo, premiato Concorso Regina Elisabetta di Bruxelles nel 1969 ma presto uscito dalle traiettorie dei programmi, il pianoforte torna prepotentemente in cattedra con un’esuberanza che finisce per contagiare anche l’orchestra, chiamata a sferzanti, aspre irruzioni ammiccanti a Shostakovich presto lavate via da più astratte, evocative distensioni. Così, la grondante materia sonora finisce per assottigliarsi, nella sezione centrale, in rarefazioni non estranee a quelle arcane schegge di suono che Webern aveva eletto a cifra distintiva.
War Silence di Cristian Carrara chiude il polittico con la seconda prima incisione assoluta del disco: un lavoro a tre pannelli, scritto nell’urgenza di catturare, nel forsennato grido che accomuna gli scenari di guerra, la dimensione insieme angosciante ma allo stesso tempo salvifica del silenzio. Attraverso il filo intimo di questa ricerca che dalle trincee (Trenches è il titolo del primo quadro) conduce a Fruts, bambini in friulano, la lingua madre del compositore, la musica si fa puntuale, trepidante veronica di un racconto musicale contratto in spasmi contrappuntati da anse di struggente resa, al tempo insieme testimonianza civile e vibrante canto di denuncia. Una pagina del 2015 che oggi suona sinistramente profetica. Sembrava scritta per ieri, e invece parlava del nostro domani.
Cristian Carrara, Luigi Dallapiccola, Guido Alberto Fano, Silvio Omizzolo
War Silence
Roberto Prosseda
London Philharmonic Orchestra
Nir Kabaretti
Hyperion