Il giovane Maestro racconta della sua esperienza in occasione del suo ritorno a Parma per il Festival Toscanini
Giulio Arnofi appartiene alla ricca nidiata di quelle giovani bacchette italiane sul cui talento l’Europa ha iniziato a scommettere. A dimostrarlo è un curriculum già costellato di prestigiose collaborazioni e da importanti traguardi, ma soprattutto è il fitto calendario di impegni che lo attendono nei prossimi mesi, a cominciare dal ritorno a Parma, in occasione del Festival Toscanini. Lo abbiamo incontrato.
Maestro, Lei appartiene ad una generazione che vede tra le sue fila numerosi talenti emergenti sulla scena nazionale e internazionale. Una bella risposta al frequente adagio che vuole i giovani pigramente adagiati tra coltri di noia….
Nel mondo musicale (ma non solo), per chi vuole fare davvero la professione, c’è poco tempo per essere pigri o per annoiarsi, bisogna inseguire le opportunità. Audentes fortuna iuvat!
La sua formazione avviene nel segno plurimo di diverse direttrici e di altrettante figure. Laurea al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano con Daniele Agiman, perfezionamento con Maurizio Arena, una rosa di master class con Julius Kalmar, Dominique Rouits, Günter Neuhold e Matteo Beltrami. Parallelamente, studi di Composizione con Cristina Landuzzi e di Interpretazione vocale con Alberto Zedda presso l'Accademia Rossiniana di Pesaro. Quanto è importante, nella ricerca e nella costruzione della propria personalità musicale, per un giovane che si affacci sul professionismo, l’impronta del Maestro? E quanto lo è lo sguardo alla musica nella complementare pluralità dei molti aspetti che la caratterizzano?
Le persone che si incontrano durante la propria formazione sono assolutamente fondamentali, ma è altrettanto fondamentale capire cosa cogliere o non cogliere da ogni Maestro a seconda anche di un proprio pensiero critico sempre in divenire. I Maestri migliori che ho avuto sono quelli che hanno saputo impiantare in me un seme, che è la sintesi di quello che loro mi hanno insegnato e di quello che io ho carpito da loro. Un seme significa un metodo di analisi della musica, una maniera di approcciarsi all’opera e al Belcanto, un certo modo di essere curioso e musicalmente onnivoro, una certa maniera di comunicare le proprie idee ed essere efficaci di fronte alle persone anche dall’altra parte del mondo. Lo sguardo alla musica per me è sempre multidimensionale, c’è “l’oggetto” partitura, c’è il pensiero dietro l’interpretazione, c’è l’idea di percezione che ne avrà il pubblico, il funzionamento drammaturgico dell’intero programma musicale di un concerto.
Negli ultimi anni è stato assistente di Corrado Rovaris per un Don Giovanni di magnifico nitore al Teatro Regio di Parma, di Sesto Quatrini per Die Zauberflöte al Regio di Torino e di Evelino Pidò per Il Barbiere di Siviglia al Teatro alla Scala, solo per citarne alcuni. Occasione, per un giovane direttore, di accostarsi e di lavorare a stretto contatto con personalità differenti e, talvolta, antipodiche, al montaggio, tassello per tassello, della realizzazione finale. Cosa le hanno lasciato queste esperienze e come hanno inciso sulla sua visione di quelle partiture?
Fare da assistente a un direttore, avendo studiato e conoscendo già prima la partitura, significa mettersi in gioco: mettere in gioco la propria interpretazione e confrontarla, con sincero interesse e umiltà, con Maestri di più ampia esperienza. Significa, quindi, anche confrontarsi con modi di approcciarsi alle voci e ai repertori differenti, cogliere e carpire nelle concertazioni quegli elementi interessanti che potrebbero entrare a far parte della propria tavolozza arricchendo così le proprie possibilità musicali ed espressive. Credo sia un’esperienza importante per un direttore e che fa parte di quella tradizione artigiana secolare dell’andare a bottega, tipica anche dell’opera lirica.
Al suo attivo ha già numerose collaborazioni con compagini internazionali, in una fitta agenda di appuntamenti che ormai da anni La vedono impegnato in numerosi concerti. Qual è la Sua percezione rispetto allo stato di salute della musica in Europa e, in particolare, in Italia?
È difficile poter parlare a livello generale dello stato di salute della musica in Italia e in Europa perché il mondo musicale è strutturato ad oasi: dipende molto dal management, dalle orchestre, dai direttori musicali che le stesse orchestre hanno avuto, da quanto la programmazione entusiasmi anche la stessa orchestra o il personale di quel teatro, poi il pubblico e tanto altro ancora. Posso però dire che c’è una standardizzazione della qualità, seppur alta, a beneficio di un numero molto alto di concerti ed eventi: i numeri hanno tendenzialmente preso il sopravvento sulla vera qualità dei concerti e delle interpretazioni, sfociando alle volte in una routine che appiattisce la musica.
Su quali elementi basa il rapporto con le orchestre con cui si trova a lavorare? Come imposta il lavoro di costruzione e di limatura di un pezzo, dall’inizio fino alla sera del concerto? Su quali leve, anche extramusicali, ritiene necessario agire, per creare intesa e complicità con un gruppo di musicisti?
Il direttore ospite, come nel mio caso, si deve immerge in pochi giorni in un complesso reticolato di dinamiche lavorative e umane, l’orchestra, che non dipendono da lui e che non potrà mai gestire appieno. L’approccio, il mio, sin dal primo minuto di prova, è di apertura, fiducia e condivisione. Più ci si concede umanamente e professionalmente più l’orchestra, quindi i professori, saranno portati a dare e fare del loro meglio. Riguardo al lavoro musicale, lavorare dal macro al micro poi tornando al macro, funziona sempre. L’orchestra ha bisogno di conoscere il tuo pensiero e tu conoscere qual è il punto di partenza interpretativo dell’orchestra e la reazione dell’orchestra agli stimoli musicali che dai. Trovo prima una ossatura interpretativa e man mano che si entra dentro quel determinato linguaggio, approfondisco fraseggi, articolazioni, colori, tendendo sempre di più all’idea, al quadro musicale che durante lo studio avevo concepito.
In occasione del Toscanini Festival, a luglio tornerà a Parma, alla testa della Filarmonica Toscanini con cui, lo scorso febbraio, ha debuttato con un programma mozartiano. Questa volta, sul leggio, ad attenderLa ci sarà Pierino e il Lupo di Sergej Prokof’ev: pagina celeberrima, ma anche piena di insidie e di trappole. Vuole svelarci, almeno per concetti di massima, qual è il Suo approccio a questa favola musicale e a quali aspetti ed elementi, intende dare rilievo?
Pierino e il Lupo è davvero un gioiellino, non solo per i temi creati da Prokof’ev, ma anche, e soprattutto, per come li ha combinati formalmente tra di loro costruendo una drammaturgia sonora dove il testo non fa altro che pleonasticamente confermare la musica. In quanto favola, mi piace approcciare questo lavoro come se fosse una concatenazione di piccole scene d’opera o come un finale d’atto, quindi con rigore e un po’ di libertà allo stesso tempo, ascoltando il ritmo del racconto per costruire un flusso continuo, ma non monotono, del discorso.
Approfittando della precedente domanda: generalmente, qual è la Sua strategia per accostarsi ad un pezzo e “risolverlo” interpretativamente? Ci sono tappe obbligate oppure ogni pagina ha un suo codice d’accesso?
Anche se di un autore già affrontato, ogni brano ci racconta qualcosa di differente e va indagato secondo gli elementi che esso stesso ci offre, senza pregiudizi o presunzione. Ricordo quando a lezione di composizione con Cristina Landuzzi a Bologna affrontavamo pagine di Mahler, di Bach o di Penderecki, senza utilizzare metodologie o stilemi di analisi particolari, ma semplicemente osservando con attenzione quello che l’autore faceva e traendo successivamente noi delle conclusioni, fu per me una rivelazione. Tornando a noi: inizio così a pormi molte domande e proseguo iniziando a darmi qualche risposta: studiando la partitura, leggendo note biografiche o lettere dell’autore, cercando eventuali libri che trattino la prassi, approfondendo la letteratura contemporanea dell’autore, ecc. Mi costruisco un’idea dell’autore su quel brano specifico. Più si approfondisce e più le scelte interpretative si selezionano quasi da sole. Un mio grande sogno, le confesso, è proprio quello di dirigere i grandi cicli di sinfonie proprio per mettere in pratica questo mio approccio.
Lei è da tempo in prima linea anche in progetti e in operazioni tesi alla promozione e alla divulgazione della musica. Direttore artistico dell’orchestra Filarmonica di Firenze La Filharmonie e segretario artistico del Lerici Music Festival. Quali sono state e quali continuano ad essere le ragioni di questo Suo impegno?
Direi la passione per la musica, che significa anche sviluppare progetti di valorizzazione e promozione. Se ci pensiamo bene soprattutto dall’Ottocento ad oggi molti musicisti, compositori e direttori d’orchestra erano o sono anche direttori artistici o promotori di eventi musicali. Programmare una stagione, una rassegna, un festival è a tutti gli effetti un fatto creativo, e il pensiero artistico è abbastanza simile al lavoro interpretativo. Trovo molto stimolante e arricchente, anche per il mio lavoro di direttore d’orchestra, dedicare parte del mio tempo alla direzione artistica, mi aiuta a entrare nell’arte pur mantenendo un piede sulla terra ferma.
Un’ultima domanda. In questi ultimi tempi, drammaticamente costellati da una sequenza crescente di tensioni e di conflitti armati in cui la più efferata disumanità sembra il tratto distintivo e comunemente identitario, la musica e, più in generale, l’arte sono state terreno di scontro, più che di dibattito e di riflessione, per decidere le condizioni secondo le quali censurare o ammettere in scena artisti e compositori, autori ed opere. Personalmente, qual è la Sua posizione in merito? E qual è, oggi, a Suo avviso, ciò che la musica può fare per contribuire ad un principio di soluzione?
Ho vissuto personalmente questo problema proprio lo scorso anno al Lerici Music Festival, doveva venire una importante e bravissima artista russa, ma la politica locale ha alzato un tale polverone mediatico e non solo, che abbiamo dovuto cancellare, o meglio, rimandare l’invito a un momento migliore. Personalmente, seppure sforzandomi, non riesco proprio a comprendere questa associazione tra la cultura secolare di un popolo e i fatti di oggi, tanto politici ed economici e poco culturali. La diplomazia culturale, quindi anche la musica, possono e devono contribuire, non tanto o non solo a livello delle istituzioni, ma anche a livello del cittadino, per tamponare la demagogia dilagante e per far trovare nella cultura e nella musica un terreno pacifico e condiviso che non fa altro che arricchire l’anima di ogni persona.