Recensioni - Cultura e musica

Intervista a Maria Gabriella Mariani

L'eclettica artista si racconta in occasione dell'uscita del suo ultimo cd: Fairy tales

Alcuni amano vederne le ragioni nel karma, altri ne cercano gli indizi nella sorte. Di fatto, la musica è nella biografia di Maria Gabriella Mariani quello che a noi piace chiamare un incontro di destino; un appuntamento naturale quanto necessario a dare senso e linfa ad una creatività traboccante.

Pianista, compositrice, autrice di testi intrecciati a doppio filo in un rapporto di incalzante ispirazione, da sempre protesa a cogliere assonanze e consonanze del sapere tutto, Maria Gabriella Mariani rappresenta un nome prezioso quanto appartato nel firmamento musicale, artista più attenta a custodire la propria ricchezza che a divulgarla a tamburo battente. Una personalità, dunque, che occorre mettersi in viaggio per stanare, depositaria di un’arte fatta di orafa minuzia e di una discrezione che sembrano appartenere ad un altro tempo. Ad un altro mondo. Su indicazione di un buon consigliere, abbiamo ascoltato il suo “Fairy Tales”, polittico di microcosmi fatati che inanella le voci di Schumann e di Debussy a quella della stessa interprete, autrice di quella Kinderliana che già dal titolo tanto dice della cifra poetica, dell’universo espressivo, del vasto retroterra della compositrice.

Abbiamo deciso di conoscerla più da vicino, e di raccontarne il percorso.

Signora Mariani, approcciarci alla Sua sfaccettata espressione artistica significa fare i conti con una spiccata fluidità di linguaggi e di approcci. L’aspetto strettamente pianistico, quello compositivo, quello letterario. E, come in un calviniano castello di destini incrociati, le incursioni nei terreni della scienza, della filosofia, dell’architettura. Inevitabile partire da qui: potremmo presentarLa come un’artista “rinascimentale”?

Onoratissima di queste considerazioni ed attribuzioni. Non so; certamente, mi sento un’umanista nell’anima. Nel mio piccolo, del pensiero rinascimentale mi affascina la concezione olistica, l’idea di una ricerca senza confini, avventurosa e potente, spinta ai limiti della conoscenza: la vita considerata come una tavolozza in cui tutto era intrecciato. L’epoca moderna e contemporanea, con l’irruzione della tecnologia, ha forse sancito per molti aspetti un divorzio tra arte e scienza, allora inconcepibile. Siamo diventati perfezionisti, specialisti, ma certamente senza più quell’anelito, quell’idea di conoscenza totalizzante che l’umanesimo incarnava. A me piace esplorare tutte le prospettive del sapere, renderle materia di comunicazione e di restituzione, e dare una parte di me in ogni declinazione del mio fare arte. Nella mia famiglia non c’erano musicisti; l’approdo alla musica è stata dunque una conquista, l’impossessarmi di un linguaggio e di un canale comunicativo che sapevo non appartenere a chi mi stava vicino. Da qui, probabilmente, ho imparato la necessità di tradurre, di trasporre, talvolta semplificando ma senza mai senza impoverire, il mio mondo interiore, evitando quelle nicchie di sterile autocompiacimento che spesso invece abitano in contesti più favorevoli.

Da dove nasce questa onnivora curiosità?

Credo che possa essere nata da una natura naturalmente portata ad emozionarsi e a volerne dare espressione. Non sempre trovavo una corrispondenza con chi mi circondava; quindi, è stato quasi inevitabile sfidare me stessa e cercare nuovi orizzonti, pur continuando a svolgere con cura quanto mi veniva richiesto. Diciamo insomma che, mentre una parte di me era attenta ad essere un’alunna ed una bambina ineccepibile, l’altra parte, quella più viscerale, era intenta a cercare un fondo di senso e di verità in ciò che studiava: risposte più profonde che mi permettessero di comunicare con il mio mondo interiore e di nutrirlo con un immaginario potente e dilatato.

Il Suo approccio alla musica avviene molto presto, e da subito rivela un temperamento singolarmente maturo, votato all’introspezione e ad uno scavo analitico che sorprendono. Quali sono i momenti più significativi degli anni della sua prima formazione?

Da bambina sicuramente la composizione è stata una compagna di viaggio. Un alfabeto primigenio, con l’armonia personificata in famiglie, in relazioni affettive, in una rete di legami prossimi e lontani. Possiamo dire che ho imparato prima a comporre che a suonare, riprendendo istintivamente i motivetti più disparati, dalle filastrocche popolari alle canzoncine dello Zecchino d’Oro. Poi c’è stato l’incontro con Aldo Tramma, il mio primo Maestro. Un modello ideale che rendeva ogni lezione un appuntamento vissuto con l’emozione di un continuo esplorare, come in un vero innamoramento. Ricordo che ero gelosa del suo esserci anche per altri allievi; avrei voluto trattenere tutta la sua ricchezza per me. Prendere il volo verso altri scenari, ad un certo punto, è stato doloroso quanto necessario. Una tappa fondamentale di ogni percorso di crescita.

A seguire, l’incontro con figure illuminanti quali Aldo Ciccolini e Martha Argerich. Qual è il lascito, artistico ma anche umano, dei vari docenti che hanno costellato il Suo percorso?

Ciccolini, anche per una questione temporale, è venuto nel momento in cui la conoscenza anche “qualitativa” della musica diventava in me essenziale. Io, per formazione, provenivo dalla gloriosa scuola di Vincenzo Vitale, fatta di dita elettriche e di un repertorio avventuroso. Mi era estraneo, al tempo, il mondo più ripiegato ed introspettivo dei vari Schubert, Brahms. Quel mondo che poi, negli anni, avrei capito essere il mio reale baricentro. Ma, allora, quella visione più meditata, introversa, era una meta ancora lontana da raggiungere.  Ed il Maestro mi appariva quale una figura distante, di semidivinità. Da lui avvertivo ammirazione ed apprezzamento, ma solo raramente tenerezza e quell’umanità fatta di vicinanza e di intima comprensione. Ricordo che inconsciamente avevo cercato di darmi una nuova caratterizzazione, di mascolinizzarmi, di negare o comunque mortificare la mia femminilità per trovare maggior consenso in lui. Soffrivo della sua cortese distanza, della mancanza di un calore che per l’allievo significano la spinta propulsiva a dare il meglio di sé. Con la Sonata “Pour jouer”, ho voluto suggellare le tre fasi del mio rapporto con lui. Quello che era, che è diventato, che volevo che fosse. Il terzo tempo è il più grandioso, il più tonale, il più romantico: quasi una riconciliazione vissuta in retrospettiva.

A quando risale il vostro ultimo incontro?

L’ho rivisto l’ultima volta dopo un decennio circa dal termine dei miei studi con lui, all’Academia di Biella. Ci siamo ritrovati 5 anni prima che lui morisse, ed in quell’occasione ho eseguito in sua presenza la Sonata. Un recital all’Istituto degli studi filosofici di Napoli: l’omaggio non ad un monumento o ad un grande ormai scomparso, ma ad un vivente, presente in sala. Un’emozione fortissima.  Poi, ho incontrato la Argerich, nel 2004. Suonai per lei Gaspard de la Nuit; un’interpretazione che la impressionò molto. Disse di me cose molto belle che mi piace custodire con discrezione, e mi propose di seguirla entrando a far parte della sua strepitosa ciurma di artisti itineranti che spesso si esibiscono con lei nei vari Festival. Dopo notti insonni e febbrili, decisi di declinare l’invito. Forse ci voleva un mordente maggiore, un narcisismo più spiccato, o forse sarebbe bastata una sana incoscienza. Io all’epoca non ero più una ragazzina: avevo la mia vita, lavoravo, avevo messo radici con la fatica di chi si è guadagnato metro per metro la propria serenità. Capii che, in fondo, ero troppo legata a ciò che avevo saputo creare attorno a me. Il carrozzone di una vita avventurosa non mi apparteneva più.

Di fatto, però, non ha mai rinunciato ad un continuo trasmigrare tra esiti e declinazioni espressive. Il Suo ultimo lavoro discografico, intitolato “Fairy Tales” (qui la recensione) sembra perfetto per un biglietto da visita del Suo essere artista.

Sì, da sempre indago il mondo di un’infanzia perduta, della memoria, del ricordo, e lo faccio attraverso molteplici approcci.

L’aspetto della miniatura, del racconto breve che schiude folgoranti verità condensate nel frammento, sembra trovare in questa incisione la più felice sintesi attraverso la lente trasparente ed immaginifica del mondo infantile. Da un lato, le schumanniane Kinderszenen op. 15 – proiezione ideale di un’intimità famigliare ancora incompiuta in cui elemento fantastico e dimensione colloquiale si compenetrano miracolosamente -, dall’altro, le caustiche scenette che Debussy condensa nella raccolta Children’s Corner, dedicata alla sua bambina. Al centro, incastonate tra questi due mondi, le delicate fantasmagorie della Sua Kinderliana, scaturita quasi per naturale fermentazione dalla raccolta de “I racconti di Dora e Lucia”. Ci spieghi la nascita di questa operazione “plurilinguistica”.

Schumann è l’humor, la percezione sottile, la duttilità nel caleidoscopio di mille stati d’animo. Il mondo che lui rievoca è fintamente innocente, immaginato più che vissuto, disseminato di rivelazioni e perennemente pronto a rovesciarsi nel suo contrario. In questo universo, l’uomo ed il bambino coabitano. In Debussy la visione è anteposta alla sensazione. Al centro, c’è la mia Kinderliana, una sorta di ponte – anche linguistico – tra i mondi di Kreisleriana e delle Kinderszenen, tra la follia e l’innocenza, ben sapendo quanto vicine esse possano talvolta essere. Peraltro, proprio il tema della follia costituirà l’asse portane del mio prossimo CD.

Scandagliando nelle sue precedenti esperienze, incontriamo un altro elemento centrale del Suo universo espressivo: quello dell’improvvisazione. Cosa rappresenta, per Lei?

Improvvisare mi permette di conoscermi meglio, di alimentare la mia parte istintiva; quasi un pensare attraverso le note. Un soliloquio che fino a qualche anno fa in me spesso strideva con la voglia di perfezionare, di limare continuamente, ma che ho sempre avvertito come energia complementare alla riflessione, che rimane prevalente nel mio approccio alla musica, essendo innanzitutto interprete. L’improvvisazione in questi ultimi anni è una pratica che ritrovo soprattutto nel momento della composizione, della creatività.

Fino ad ora abbiamo lasciato in secondo piano la parte squisitamente pianistica dell’artista. Solitamente, come nasce un progetto concertistico? Come dispone, cioè, i tasselli del percorso d’ascolto che disegna di volta in volta ed in cui, spesso, Suoi brani convivono accanto a quelli della grande tradizione letteraria?

Spesso mi lascio affascinare dal caso, dal momento. Non di rado mi trovo a cambiare, modificare o addirittura a sovvertire quelli che erano i piani iniziali di un progetto, sia concertistico che discografico. Ed in questo l’istinto è un magnifico alleato. Uno dei miei prossimi lavori in sala di incisione - inizialmente concepito attorno alla figura di Clara Schumann, musa ispiratrice al centro dei rapporti, umani e compositivi, tra il marito Robert ed il giovane Brahms – ha improvvisamente virato verso il tema della “visione”. Ed immediatamente si sono affacciate, come opportunità, le pagine dei vari Poulenc, Debussy, Prokofiev, insieme ad un ventaglio di mie composizioni.

Quello che abbiamo appena archiviato è stato l’anno più tragico della nostra storia recente che, oltre a portarsi via le vite di tanti amici, ha spento le luci di teatri e sale da concerto. Da artista, come ha vissuto questi mesi? C’è stato spazio, nella routine sconvolta da un inatteso immobilismo, per pensare a futuri progetti?

Io sono per natura solitaria, non vivo di concerti anche se certamente in questi mesi ho dovuto cancellarne diversi. Spero di non ferire la sensibilità di nessuno, ma per me, il silenzio di questo periodo drammatico si è rivelato prezioso e per tanti aspetti proficuo. Ho studiato nuovi repertori, ho pubblicato un libro di narrativa, ne sto scrivendo un altro, sto per terminare una composizione nuova. Sembrerebbe quasi un oltraggio alla situazione, ma non lo vuole essere. Il mio rapporto con lo studio e con lo strumento è più un esercizio spirituale quotidiano che una palestra finalizzata al concerto. Il piacere di questo momento intenso ed intimo, nella dilatazione dei tempi portata dal lockdown, ha goduto di una sua naturale amplificazione.

Molti artisti in questi mesi hanno trovato nello streaming di concerti anche domestici un ponte di fortuna con il pubblico.

Pur ritenendolo un mezzo importante e prezioso per questo periodo difficile, ritengo che il concerto possa avvenire solo nella condivisione di una fisicità. Io ho preferito sfruttare la tecnologia per realizzare una rubrica sul web dal tiolo “Studio insieme a voi”: incontri in cui ho messo a disposizione il mio privato, il momento dello studio, dell’analisi, della riflessione. L’iniziativa ha ottenuto un bel riscontro ed è stata colta nelle sue intenzioni autentiche. L’idea dei concerti in streaming è qualcosa che a mio avviso solo i grandi nomi si possono permettere lo studio in streaming, individuale e al tempo stesso corale e polifonico, è invece qualcosa di fecondo.

Da ultimo, secondo Lei è cambiato, oggi, il ruolo dell’artista, anche alla luce della necessità di trovare modalità alternative di comunicazione e di interazione?

Penso che solo i grandi possano creare una breccia, rendendo esemplare qualsiasi loro proposta. Chi è meno altisonante, chi non fa notizia, dovrà mediare tra reinvenzione ed una normalità da riallacciare. Il pubblico che ritornerà ai concerti avrà bisogno di ritrovare una propria dimensione, andrà accompagnato. Abbiamo bisogno di raccontare e raccontarci, sdoganando la musica da nicchie talvolta troppo smaltate ed autocompiaciute, e di farla percepire.