Recensioni - Cultura e musica

Intervista ad Enrico Bronzi

Il violoncellista del Trio di Parma si racconta in occasione del suo debutto come direttore  alla testa dell’Orchestra da Camera di Perugia.

La stella nascente di Giuseppe Gibboni, vincitore della scorsa edizione del Concorso Niccolò Paganini di Genova, è protagonista del concerto di domenica 5 marzo 2023, alle ore 17.30, organizzato dalla Società dei Concerti di Parma ed inserito nella  Stagione Concertistica del Teatro Regio. Un appuntamento imperdibile anche per l’atteso debutto, in qualità di direttore, di Enrico Bronzi, qui alla testa dell’Orchestra da Camera di Perugia.

Un talento multiforme, quello dello storico violoncellista del Trio di Parma, da sempre affascinato nel fare del proprio percorso artistico un sentiero intrecciato da accessi laterali, avvincenti divagazioni, coraggiose contaminazioni. Lo abbiamo incontrato rubandogli qualche minuto alle prove.

Maestro Bronzi, com’è tornare nella Sua Parma in questa ennesima veste?

A tutti gli effetti per me Parma, e in particolare il suo Teatro, ha a che fare con un’idea di ancestrale familiarità. Al Regio andavo quando ero bambino, con i miei genitori, grandi appassionati di musica. Per me era un luogo magico, una sorta di scatola dei sogni. Vi arrivavo pieno di desiderio. Poi, puntualmente, a metà concerto mi addormentavo. Oggi mi presento per la prima volta da direttore d’orchestra.

Negli ultimi anni, il Suo nome appare sempre più spesso anche in questo ruolo. Cosa L’ha condotta verso questo approdo?

Dovendo sintetizzare con una battuta, direi che da sempre mi sento un atipico. In realtà, è stato qualcosa di molto naturale, quasi un’esigenza. Nel mio modo di concepire la musica, non ci sono compartimenti stagni tra le varie dimensioni; in fondo, tutta la letteratura non è altro che un parlarsi, un interloquire con l’altro, così come con sé stessi. Una quintessenza, quindi, dello spirito cameristico. Lo è per lo strumento solista, lo è, per aumentazione, per la grande orchestra. Il mio è stato piuttosto un percorso che potremmo definire a ritroso. La musica da camera non è stato un filone secondario, successivo, come avviene in molte carriere, ma il solco primigenio da cui si sono diramate le altre declinazioni. Dopo la vittoria al Concorso di Helsinki la mia agenda ha dovuto fare spazio a molti importanti concerti anche da solista. Nel frattempo, il Trio aveva già una propria identità che lo aveva visto imporsi in ambito internazionale. E dirigere, in questi ultimi anni, rappresenta l’ennesima sfaccettatura dello stesso prisma, il privilegio di un ulteriore punto di vista. Per questo, mi piace pensarmi come un Kapelmeister.

In questo concerto parmigiano incontrerà sul palco il talento di Giuseppe Gibboni, stella del violinismo emergente con i suoi 22 anni. Una sorta di faccia a faccia tra due generazioni contigue.

Sono particolarmente felice per questa opportunità di fare musica con uno dei talenti più limpidi che mi sia capitato di ascoltare. Il nostro è un mestiere che vive di studio, di riflessione, di silenzio. Ma poi è la dimensione fisica, la parte agita che ci permette di esplicitarci e di dare senso a ciò che siamo. Incontrare giovani interpreti ci aiuta a superare i nostri schemi mentali, ad aprirci ad un modo diverso di guardare alla stessa partitura.

Sul leggio, tre pagine fitte di richiami sottesi, nel segno di una cantabilità e di un guizzo straordinari.

Assolutamente. Ho voluto comporre questo percorso di ascolto proprio a partire dalle individualità del solista e dal Concerto Paganini, che della strepitosa vittoria di Giuseppe al Concorso Paganini è stato il suggello. È una pagina di strumentalità infiammata ma anche di grande cantabilità, che richiede un arco quasi parlante. Schubert, quando ascolta Paganini a Vienna, dichiara in lacrime di aver sentito suonare un angelo. E la stessa cantabilità, la stessa italianità, seppur trasfigurata e purificata, in un certo senso raffreddata della sua componente più mediterranea, la si ritrova proprio nella Sinfonia D 589, detta “la Piccola”. A fare da ponte tra questi due mondi, e a darne la chiave per penetrarne le contrastanti anime, è la mozartiana Ouverture da “Le nozze di Figaro”.

Pervasa da un vitalismo irrefrenabile, per certi versi quasi rossiniano…

Infatti. Se ci pensiamo, pur senza mai vederlo comparire in questo programma, è Rossini il convitato di pietra di queste pagine: il suo cinico parossismo, la sopraffina ariosità delle sue linee, l’incastro magnetico di ogni ingrediente drammaturgico. La stessa “Piccola” è pervasa di atmosfere e, addirittura, di frammenti che sembrano occhieggiare proprio al mondo del genio di Pesaro.

Nel 2020 con il Trio di Parma avete festeggiato i vostri primi trent’anni di vita. Un matrimonio artistico di sorprendente longevità, oltre che fecondità. Cosa provate, oggi, nel suonare insieme dopo tanto tempo?

Concordo sul fatto che mantenere vivo e produttivo un sodalizio a tre sia tanto affascinante quanto complesso, per le mille implicazioni che esso comporta. Oggi ognuno di noi ha costruito, al di fuori della realtà del Trio, collaborazioni e dimensioni parallele, seppur intimamente convergenti. Nessuno di noi oggi è solo parte di questa realtà, ma anche di molto altro che, inevitabilmente, porta con sé quando ci si ritrova. E in quel momento, per Alberto (Miodini) ed Ivan (Rabaglia), esattamente come per me, la gioia di poter condividere di nuovo l’esperienza del fare musica è qualcosa di bellissimo. Non siamo più i ragazzi che muovevano i primi passi nella classe di PierPaolo Maurizzi, al Conservatorio della nostra città, ma in fondo ci è rimasta quell’etica comune nel fare musica, insieme al bisogno di discutere ogni nota, ogni presa di posizione interpretativa rispetto ad una pagina. La nostra forte criticità, il nostro desiderio di continuare a spingerci più a fondo nell’ormai vasto repertorio che possediamo rappresentano la cartina tornasole di un’avventura che non dà segni di stanchezza.

Maurizzi, nella cui classe è scoccata la scintilla tra le vostre individualità, è stato a sua volta allievo del Trio di Trieste, formazione presso la quale, terminato il Conservatorio, a vostra volta anche voi vi siete a lungo perfezionati, raccogliendone per molti aspetti il glorioso testimone. Cosa Le è rimasto di quello straordinario apprendistato e cosa ritrova, di quegli insegnamenti, nel Suo essere docente oggi?

Dario de Rosa amava ripetere che ogni libertà è nell’ordine. Sono parole che rimangono scolpite in ognuno di noi, cresciuto accanto a quei giganti. Dal Trio di Trieste ho imparato il valore del coraggio, il rispetto per ogni individualità, l’idea che un Maestro debba essere un faro, più che un calco, un ispiratore di una ricerca della propria individualità. E che debba soprattutto chiarire gli aspetti universali, come imparare a guardare a fondo una partitura, negli aspetti anche più sottesi, più segreti.  Il Maestro è un seminatore di qualcosa che solo il tempo porterà a maturazione, una volta che l’allievo avrà saputo staccarsi per cercare la propria strada.