Un incontro con il celebre organista in occasione di una delle ultime esibizioni prima del lockdown
Il nostro primo incontro era stato lo scorso luglio, sul terreno della trascrizione, in un itinerario discografico dedicato al visionario mondo haendeliano travasato per organo. Di lì a poco, su segnalazione last minute dell’amico Paolo Pinto, che curava l’organizzazione dell’evento, lo abbiamo ascoltato a Desenzano, in una serata che ne ha messo in luce la sfaccettata personalità di interprete e di smagliante improvvisatore. Nato a Trento 37 anni fa, Simone Vebber è infatti organista dal multiforme talento e dalla carriera già costellata da prestigiosi riconoscimenti. Lo abbiamo raggiunto per una conversazione su musica e musicisti, fruizione e formazione, progetti nell’immediato e a lungo termine.
Maestro, partiamo dall’inizio. C’è un momento della sua biografia in cui ha realizzato che la musica avrebbe avuto un ruolo determinante nella Sua vita?
La musica fa parte della mia vita fin dalla prima infanzia e già da bambino ero consapevole che non avrei mai potuto fare a meno di suonare. Ricordo molto bene la prima volta che appoggiai le dita sulla tastiera di un organo e ne sentii il suono: fu un’esperienza folgorante. Si trattava di uno strumento di nuova costruzione e del quale assistetti alla fase di montaggio. Giorno dopo giorno lo vedevo prendere forma. Prima la cassa, poi le tastiere, le canne ed infine il concerto di inaugurazione. Sono ricordi piuttosto lontani nel tempo ma ancora molto vividi. In seguito, grazie al confronto serrato con altri musicisti, in audizioni e concorsi, mi sono reso conto di quanto sarei stato disposto a lottare per la musica.
La Sua formazione è costellata da incontri importanti con interpreti e didatti di rilievo nazionale ed internazionale. Quanto può incidere, secondo la Sua esperienza, la frequentazione e l’affiancamento di un Maestro nel percorso di un allievo di talento? Quanto cioè può essere determinante nel contribuire a stanarne l’individualità e a far scoprire la propria cifra distintiva?
Sono da sempre convinto che non sia corretto attribuire responsabilità assolute al Maestro rispetto alla formazione di un allievo, a prescindere dalla bontà o meno dei risultati. Negli anni della mia formazione mi sono avvicinato a mondi e modi musicali molto diversi, pur ritornando sempre nell’orbita della musica organistica. E questo mi ha portato a studiare con due grandi Maestri che ritengo abbiano influenzato in maniera determinante il mio gusto e la mia ricerca interpretativa. Si tratta di Lorenzo Ghielmi e Pierre Pincemaille (per quanto riguarda l’improvvisazione). Credo che il ruolo dell'insegnante sia determinato principalmente dalle caratteristiche dell’allievo, dal suo talento innato, dal suo spirito di emulazione.
Da anni, alla Sua fitta agenda concertistica si è aggiunto anche l’impegno dell’insegnamento. Cosa rappresenta per Lei la dimensione didattica ed il confronto con le giovani generazioni di futuri musicisti? C’è, tra di loro, un tratto comune, un’assonanza generazionale nell’approccio alla musica?
È davvero difficile mettere in risalto dei tratti comuni in merito all’approccio alla musica delle nuove generazioni. I casi specifici sono tutti molto diversi e non ritengo che l'intenzione del fare musicale abbia subito mutazioni rilevanti. Posso tuttavia esprimere un’opinione rispetto al perchè i giovani intraprendono lo studio di uno strumento. Ho constatato che La disciplina ha lasciato il posto ad un’esperienza fra tante sostenuta da una prospettiva orizzontale della conoscenza, che porta spesso le nuove generazioni ad escludere un approccio approfondito, verticale appunto, della materia. Basti pensare a come è cambiata l’offerta formativa nei conservatori, e a quanto sia variegato il piano di studi dei corsi accademici. Questo aspetto è senz’altro foriero di vantaggi in virtù di una prospettiva culturale più ampia, ma non sempre declinabile con le specifiche esigenze della formazione di un musicista. La dimensione didattica, che affronto tra l’altro con grande passione ed entusiasmo, si inserisce in una relazione in cui l’unico e utile mezzo è quello di individuare un fine univoco fra maestro e allievo, ed il maestro, a mio avviso, ha “semplicemente” il dovere di sottoporre all’attenzione dell’allievo la sua esperienza, il suo punto di vista e le sue conoscenze. Questo senza pretese o aspettative che inevitabilmente andrebbero a condizionare lo spontaneo interesse dell’allievo.
Qual è il Suo parere nei confronti del sistema formativo italiano, dei Conservatori così come delle Scuole di Musica e delle tante realtà ad esse parallele?
I Conservatori di Musica, come i Licei Musicali, le Corsi di Musicologia e le Scuole di Musica sono le poche oasi di sapere musicale alle quali uno studente italiano possa attingere per imparare la musica. Il nostro sistema scolastico purtroppo non prevede uno studio adeguato delle materie musicali (basti pensare al fatto che nei licei non si affronta la storia della musica). L’alfabetizzazione musicale, praticata nelle scuole primarie e secondarie di primo grado, avviene spesso in modo approssimativo e superficiale. Ancor più grave, a mio avviso, è l’assenza di lezioni di canto corale nelle scuole. Credo quindi che tutte quelle realtà che si occupano di formazione musicale stiano facendo un grandissimo ed insostituibile lavoro per colmare questa grave lacuna intellettuale e artistica causata dal sistema scolastico.
Lei è anche docente di Improvvisazione, dimensione che La vede spiccare come una delle personalità più autorevoli del panorama emergente. Cosa rappresenta, per Lei, l’aspetto improvvisativo nella pratica esecutiva odierna? Quale apporto, cioè, quale valore aggiunto scaturisce a Suo avviso dalla “musica dell’istante” – tanto cara agli organisti dei secoli scorsi- rispetto alla pagina scritta e codificata? Quale contributo offre tale approccio al nostro modo di fruire dell’ascolto musicale odierno?
Spesso dico ai miei studenti, in maniera provocatoria, che sanno suonare il brano ma non lo strumento. E con questa frase voglio sottolineare che l'interpretazione (o l'esecuzione di un brano) non rappresenta l’unico modo di suonare possibile (a differenza di ciò che spesso si insegna nei conservatori) ma che è possibile un approccio diretto con lo strumento, caratterizzato da un processo estemporaneo di intenzione-forma-suono chiamato improvvisazione. Un qualcosa che ha che fare con una lingua viva, parlata, svincolata dal testo scritto. Naturalmente questo richiede un’applicazione intensa e specifica e delle conoscenze compositive approfondite, ma può restituire agli studenti dei mezzi espressivi molto efficaci per esprimere la propria singolarità. Credo che la dimensione dell’interpretazione musicale abbia raggiunto dei livelli qualitativi molto elevati, anche grazie studio delle prassi esecutive e all’approccio esecutivo storicamente informato. Allo stesso tempo ritengo che stiamo entrando in una fase di stallo causata dalla scarsa iniziativa da parte dei musicisti nel cercare e creare qualcosa di nuovo, dalla paura del rischio di adottare scelte esecutive singolari e dal timore di distinguersi dagli altri esecutori. La studio dell’improvvisazione, oltre che ad essere l’unica vera prassi esecutiva (se pensiamo che i primi “interpreti” musicali risalgono al diciannovesimo secolo, prima perlopiù si improvvisava) è l’occasione per restituire alla musica l’estemporaneità del linguaggio.
Recentemente è uscito per “La Bottega Discantica” un Suo lavoro dedicato alle trascrizioni di Haendel indagate attraverso la lente scorciata di musicisti a lui coevi. Come è nato questo progetto e quali sono le finalità ad esso sottese?
Sono stato sempre affascinato dalle trascrizioni, e in particolar modo da quelle nate nello stesso contesto del brano originale. Haendel era prima di tutto un organista, fra l’altro un improvvisatore di immenso talento. Tutte le sue composizioni di fatto sono state concepite alla tastiera e io ho voluto semplicemente “riportare a casa” la natura di questi brani. Nel Settecento il linguaggio musicale non aveva ancora sviluppato degli aspetti idiomatici tali da rendere assolutamente specifica ed ineludibile l’esecuzione di un brano su di un solo strumento.
Allo stesso tempo ho voluto valorizzare lo strumento: si tratta di del Serassi del Duomo di Desenzano, un organo ottocentesco che, come molti strumenti italiani di questo periodo, è dotato di una gamma timbrica molto vasta, quasi ad imitare un’orchestra. Quindi mi è parso particolarmente adatto per l’esecuzione di queste trascrizioni.
Attualmente Lei è in tournée in diverse città italiane. Per Lei, ogni concerto significa anche – più che per qualunque altro strumentista – l’incontro con uno strumento diverso, portatore a sua volta di una storia, di una concezione timbrica e identitaria. Cosa rappresenta, per Lei, il momento del concerto e del contatto con il pubblico? Quali sono gli aspetti di sé come musicista e uomo di musica che cerca di condividere come prioritari ed identitari?
Un organista non può costruirsi un programma fisso da portare in tournée: deve ogni volta dare forma ad un progetto artistico ad hoc, attingendo da un repertorio adeguato per ogni specifico strumento. Per questo la scelta del programma occupa per giorni interi la mia mente. Il concerto è un’occasione per far assaporare l’incontro fra le capacità espressive dello strumento e il mio mondo musicale. Nel corso degli anni il mio rapporto con il pubblico ha subito delle trasformazioni sostanziali. All’inizio della carriera percepivo intensamente lo stupore da parte degli ascoltatori in virtù della giovane età in cui iniziai a fare i concerti e ne traevo grande ed esaustiva soddisfazione. Successivamente ho investito di più su una ricerca interpretativa storicamente informata, cercando restituire al pubblico il senso della scrittura musicale attraverso una lettura possibilmente autentica e provando ad annodarmi con il pensiero e l’estetica del compositore, fino quasi a voler entrare nel segreto dei suoi giorni. Attualmente sento che sto associando sempre più il concerto (e l’esecuzione in generale) ad un’esperienza narrativa, nella quale tutto ciò che ho sperimentato precedentemente è in funzione di un’apertura alla comunicazione con chi mi sta ascoltando e sta cercando qualcosa di sé e della sua storia personale nel discorso musicale che sto affrontando in quel momento.
Quali sono i suoi progetti per il futuro a medio e a lungo termine?
Sto lavorando ad alcune incisioni di cui per non anticipo i contenuti, e non vedo l’ora di poter riprendere l’attività dei concerti a pieno regime, non appena la fine della pandemia ce lo permetterà!