Recensioni - Cultura e musica

L’800 e il ‘900 russo per l’Orchestra Sinfonica di Birmingham

La doppia anima della russia: quella imperiale di fine ‘800 e quella sovietica di metà ‘900 hanno costituito la spina dorsale del ...

La doppia anima della russia: quella imperiale di fine ‘800 e quella sovietica di metà ‘900 hanno costituito la spina dorsale del programma con il quale l’Orchestra Sinfonica di Birmingham ha debuttato a Verona in occasione del Settembre dell’Accademia.
Negli ultimi lustri questa formazione ha conosciuto una notevole crescita, grazie soprattutto al sodalizio con Sir Simon Rattle che per oltre un decennio vi ha ricoperto la carica di direttore musicale, prima di venire chiamato alla testa dei Berliner Philharmoniker. Consolidatosi quindi il suo prestigio sia in Inghilterra che all’estero, dove è sempre più spesso ospite di importanti rassegne, l’orchestra ha intrapreso da alcuni anni una stretta collaborazione con il finlandese Sakari Oramo, suo nuovo direttore stabile.
Per questa “prima” veronese l’orchestra ha scelto di farsi accompagnare dalla giovane violinista Janine Jansen, astro emergente del concertismo internazionale e già interprete di punta della casa discografica Decca, che ha avuto modo di esibire tutto il proprio talento in una impeccabile esecuzione del Concerto per violino e orchestra di Pëtr Il’ič Čajkovskij.
In questo concerto il ruolo del solista è assolutamente predominante, infatti sono pochi i momenti in cui l’orchestra può esprimersi liberamente, pertanto è indispensabile che l’interprete sia dotato di eccellenti doti tecniche nonché di marcata personalità. Caratteristiche queste che non sono mancate alla Jansen, che ha regalato un’interpretazione estremamente dinamica e chiaroscurata non rinunciando però alla cantabilità insita nella scrittura di Čajkovskij.
Approfittando dei tempi distesi staccati da Oramo, la giovane violinista olandese ha potuto dare un saggio delle proprie caratteristiche di eccellente virtuosa esibendo un suono energico e senza alcuna incertezza, dimostrando di sapersi destreggiare disinvoltamente anche nei passaggi più ardui. Magistrale a questo proposito la cadenza finale del primo movimento in cui anche le note più acute sono state suonate con arcate nette e decise, senza la minima sbavatura o imprecisione.
Di grande suggestione il secondo movimento, in cui la Jansen ha sfoggiato un pianissimo di cristallina trasparenza cui è seguito un terzo movimento spavaldo sin dall’attacco iniziale.
Leggermente in ombra è sembrata invece l’orchestra che, già penalizzata a livello di partitura, ha dato l’impressione di volersi ritagliare un ruolo più di accompagnamento che di simbiosi con la solista, anche nei pochi momenti prettamente sinfonici.
Opera complessa e di non facile interpretazione, è l’Ottava Sinfonia di Dmitrij Šostakovič, cui era dedicata la seconda parte del programma. Pubblicata nel 1943, dapprima ignorata e poi censurata, appartiene insieme alla Settima, ed alla Nona, al gruppo delle cosiddette “Sinfonie di guerra”, di cui è forse l’espressione più grande. Se infatti la Settima è più legata alle vicende di Leningrado mentre la Nona costituisce una sorta di ritorno alla vita dopo gli orrori del conflitto, questa sinfonia, la più cupa delle tre, è quella che maggiormente si prefigge di tratteggiare un ampio quadro di questa condizione e delle sue conseguenze sull’uomo. Drammatica sin dalle prime battute questa composizione non cede nemmeno per un solo istante alle atmosfere ironiche che spesso caratterizzano lo stile di Šostakovič, anzi, l’andamento meccanico del secondo e del terzo movimento vengono spesso interpretati come immagine della disumanizzazione cui è sottoposto l’individuo in guerra, alimentando una tragicità che non si stempra neanche nel finale che sostituisce una possibile chiusa trionfalistica con un diminuendo che sembra spegnersi su sé stesso. La lettura di Oramo di questa composizione è risultata a tratti ambigua, infatti ad una drammaticità iniziale molto ben sostenuta nell’adagio hanno fatto contrasto un secondo ed un terzo movimento in cui marzialità e meccanicità risultavano stemprate da un suono inusualmente morbido, privo di quelle asprezze e di quei contrasti netti che forse ci si aspetterebbero. Anche nei tempi successivi, pur mostrando un buon equilibrio a livello orchestrale, Oramo ha spesso teso ad indugiare sulla partitura, ottenendo sonorità rotonde più da Russia ottocentesca.
Buona nel complesso la prova dell’orchestra che è stata accolta da applausi convinti cui però non ha fatto seguito alcun bis.

Davide Cornacchione 28 settembre 2006