Recensioni - Cultura e musica

La Toscanini e Wellber per Gustav Mahler

Al Teatro Regio la Quarta sinfonia preceduta dall'adagio della decima e dai Rückert Lieder

Una serata intinta nella luce mahleriana, luce che finiva per irradiarsi fino a penetrare lo sfaccettato cristallo della Quarta Sinfonia di Schumann, che il compositore boemo non resiste alla tentazione di riorchestrare, quasi a correggere un’impronta poetica che solo decenni dopo troverà un pubblico pronto a recepirla.

Lo scorso 8 novembre, prima di salpare verso Milano, dove lo stesso programma avrebbe rappresentato un tassello dell’integrale che il capoluogo meneghino sta dedicando all’integrale mahleriana, la Filarmonica Toscanini, nell’insolita cornice del Teatro Regio anziché dell’Auditorium Paganini in cui è padrona di casa, ha ritrovato sul podio il vitalismo imperioso di Omer Meir Wellber, direttore con cui la compagine emiliana ha intessuto in questi anni un dialogo sempre più serrato, andato consolidandosi attraverso programmi sfidanti e articolati e suggellato dalla felice partecipazione, la scorsa estate, al Festival di Dresda. Il limitare del Novecento, di fatto, sembra essere un territorio d’elezione per il direttore israeliano, che già in passato si era cimentato in una lettura della Quarta Sinfonia del compositore boemo, indagandone quelle prospettive sempre complesse e sfuggenti, continuamente oscillanti tra estatica contemplazione e abissale incombere della fine. Questa volta, con un itinerario dichiaratamente intenzionato a scandagliare alcune tra le molteplici declinazioni dell’espressione mahleriana, Wellber ha tracciato un percorso che prendeva avvio dalla fine, da quell’Adagio che, primo movimento di una Sinfonia, la Decima, mai compiuta in seguito alla prematura morte dell’autore, se non rappresenta in alcun modo il deliberato congedo di Mahler dalla musica (e dalla vita), ne incarna di fatto i sentori di dissoluzione e di ineluttabile ricapitolazione.

Un mondo di intima pregnanza, in cui – in un processo variativo che sembra non arrestarsi nemmeno di fronte allo spalancarsi del baratro centrale - il passo procede, strascicato, inarrestabile, verso l’orizzonte nebbioso, sul vago calco di un rondò stanco, arreso, in cui vivono strumenti come barche arenate su una spiaggia invernale. Con il gesto ipereccitato che sempre contraddistingue le sue letture, anziché amplificarla, Wellber finiva per spegnere la struggente intensità del tessuto, comprimendo l’ampia arcata del paesaggio sonoro in zone anguste, smorzate della loro naturale tensione emotiva. Dalle sezioni, più giustapposte che autenticamente richiamate ad un vero e proprio impasto, aleggiavano febbrili spunti, quasi reperti straniati e irrigiditi, incapaci di innestarsi appieno nel flusso di coscienza della narrazione, nel suo calco dolente. Sensazione simile al cospetto della Sinfonia in Re minore di Schumann qui nella versione lasciata decantare nel più macerato inchiostro orchestrale mahleriano, tratteggiata a spatolate veloci, catturata nelle sue dimensioni di urgente evidenza più che nei più sottesi, riposti, tiranti. Una compiutezza mancata che l’autorevole voce di Christoph Pohl contribuiva a rammendare, muovendosi pienamente a suo agio attraverso la decantata, intima contemplazione del damasco dei cinque Rückert Lieder, culminanti nel sublime Ich bin der Welt abhanden gekommen, mite, rassegnato commiato che inevitabilmente porta ad avvertire, tra le pieghe di questa tela, la presenza del viandante schubertiano. Quel viandante, che tanto ha viaggiato e molto ha compreso del mondo, della vita, della bellezza, e che ora avverte che essa non gli appartiene più. Applausi generosi.