Recensioni - Cultura e musica

La “nuova” Turandot di una volta

Estremamente classica la versione dell’ultima opera di Puccini nell’allestimento di Franco Zeffirelli all’Arena di Verona

Spettacolo inaugurale dell’attuale stagione areniana, la Turandot di Giacomo Puccini firmata Franco Zeffirelli è stata la prima nuova produzione cui abbiamo potuto assistere all’interno dell’anfiteatro negli ultimi tre anni. A dire il vero anche in questo caso il termine “nuovo” non è del tutto appropriato, infatti pur trattandosi di un allestimento mai apparso sul palcoscenico veronese, questa Turandot rispecchia fedelmente quella presentata al Metropolitan qualche lustro fa e si differenzia di poco da quella che debuttò alla Scala nell’85.
Con questo spettacolo, che suggellava la scelta di dedicare l’intera stagione estiva 2010 a titoli realizzati dal regista fiorentino, la Fondazione Arena ha dato l’impressione di voler  accantonare il cosiddetto “teatro di regia” per confermarsi come palcoscenico dedito alla grande tradizione del melodramma. E così infatti è stato.
 

Il regista fiorentino, autore anche delle scene, anche in quest’occasione ha giocato la carta del “coup de théatre”, dividendo il palcoscenico a metà mediante un sistema di quinte scorrevoli che rappresentavano una sorta di muraglia cinese e che, dopo essere rimaste chiuse per tutto il primo atto e parte del secondo, si aprivano all’inizio della scena degli enigmi su un tripudio di sfarzo, ori, luci e colori a rappresentare una sorta di palazzo delle meraviglie.
L’idea di per sé non sarebbe stata neanche discutibile, se non fosse che la regia sì fermava lì. Dopo  quasi un atto e mezzo in cui le masse erano state sacrificate in un piccolissimo spazio a proscenio, costrette a movimenti compressi e non sempre chiari,  avvolte in luci buie e grigiastre, finalmente tutto si trasformava nella più ricca delle scenografie; ma, una volta esauriti gli “Oooh” di meraviglia ed i flash del pubblico, non accadeva più nulla sino agli applausi finali. A parte infatti il richiudersi delle paratie all’inizio del terzo atto per poi riaprirsi nel finale, nessun movimento, nessuna azione, nessuna intenzione, ma sempre la solita immobile cartolina illustrata, appena ravvivata da qualche modesta coreografia,  che all’inizio divertiva, ma alla lunga non diceva più niente, nonostante l’indiscutibile bellezza dei costumi di Emi Wada.
Difficile anche formulare giudizi sulla resa teatrale dei singoli protagonisti, che oltre ad entrare ed uscire dalla scena poco altro facevano. Azioni e movimenti appartenevano al più classico e convenzionale dei repertori, ed in più di un’occasione si è avuta l’impressione che fossero i cantanti stessi a metterci del loro per riempire i molti vuoti drammaturgici.
Dal punto di vista vocale invece abbiamo avuto modo di apprezzare la sempre efficace Turandot di Giovanna Casolla, la cui voce, pur non possedendo più lo smalto di un tempo, si è dimostrata comunque solida e ben timbrata, complice anche una lunga frequentazione con la “principessa di gelo”. La scelta di non chiudere l’opera con la morte di Liù ma di eseguire anche il duetto finale musicato da Alfano ci ha permesso di apprezzare ulteriormente la buona forma della cantante napoletana.
Più di una perplessità ha invece destato il Calaf di Marco Berti: acuti squillanti, ma quasi sempre raggiunti con vistosi portamenti, ed un fraseggio abbastanza monocorde non hanno contribuito ad una resa convincente del personaggio.
Efficace ma senza particolari momenti di trasporto la Liù di Tamar Inveri. Funzionali i tre dignitari di Aldo Orsolini, Luca Casalin e Nicolò Ceriani. Non sempre puntuale il coro diretto da Giovanni Andreoli.
Giuliano Carella ha diretto con mano solida l’orchestra dell’Arena, non addentrandosi troppo nelle sottigliezze della partitura. D'altronde si sa, l’Arena non è luogo di finezze orchestrali, anche in virtù del fatto che il nuovo impianto di amplificazione ha ancora bisogno di registrare qualche livello di equalizzazione. Le voci dei cantanti risultavano spesso intubate, mentre dal golfo mistico il suono  è arrivato in più di un’occasione privo delle frequenze più alte, con un fastidioso effetto di appiattimento che dava l’impressione di ascoltare una vecchia incisione monofonica più che un’esecuzione dal vivo.
Al termine il pubblico che riempiva l’anfiteatro per circa i due terzi, ha comunque mostrato di gradire lo spettacolo tributando applausi calorosi.

Davide Cornacchione 1 luglio 2010