Recensioni - Cultura e musica

Le caleidoscopiche miniature di Sergei Babayan inaugurano la stagione di Tempo d'Orchestra

Il pianista armeno si è esibito in un programma di grande eclettismo da Liszt a Schubert a Rachmaninov a Komitas.

La cordiera del pianoforte come arpa, chitarra, sirena. La miniatura come dedizione al dettaglio, scavo nel cuore di storie minori, dentro all’accadere, all’intimo pulsare, a quel niente esteriore che, da quel cannocchiale rovesciato, è desiderio, perdita, struggimento, estasi. L’avevamo ascoltato nel 1992 – eravamo tutti più giovani - al Concorso Busoni, quando il Premio altoatesino era ancora passaporto e garanzia per aggiudicarsi i massimi palcoscenici internazionali. Il suo era stato un terzo premio in cui il bronzo riluceva come oro, accanto al granitico Fabio Bidini e alla prodigiosa sedicenne Anna Kravtchenko. In tutti questi anni, di Sergei Babayan (oggi non solo concertista di rango ma anche e soprattutto docente di pesi massimi, Danil Trifonov su tutti) ci è rimasto, intatto, il ricordo vivo di quel pianismo diverso, distante dalla roboante muscolarità dei molti, poetico anche quando torrenziale, fatto di uno sguardo sempre laterale, teso a catturare voci e umori sfuggiti al cono di luce dei riflettori e destinati, il più delle volte, al silenzio. Indimenticabile, tra gli altri ascolti, quella Valse raveliana, altissima per una sensualità mai disgiunta da un incombente senso di tragico, di ineluttabile. E, su tutto, quel grappolo di trascrizioni schubertiane elevate ad oasi di trepidante, immacolata bellezza. Un cantore di piccole storie fatte paradigmi di una condizione universale, istanti capaci di raccontare e di sintetizzare una e mille vite.

Lo scorso giovedì 10 ottobre, a Mantova, è stata sua la firma chiamata ad inaugurare la Stagione numero trentuno di Tempo d’Orchestra, organizzata da Oficina OCM. Nell’intima cornice della Sala delle Capriate (purtroppo, con la cattiva compagnia di luci mantenute accese per l’intera durata del recital), il pianista armeno ha estratto, da un’ideale valigia della memoria, una galleria di istantanee unite dal filo sottile di un’emotività accesa, dipanate dalla voce di un io narrante tanto discreto quanto pervasivo. Da Schubert – Liszt a Schumann, da Rachmaninov ad un grappolo di francesi imbevuti di incalzante swing, con la presenza di Padre Komitas a fare da stella polare, richiamo di quelle radici armene che trent’anni di carriera negli Stati Uniti non hanno saputo cancellare. Il filo del canto tra slanci e reticenze, il caleidoscopio degli armonici e delle voci interne a cui guardare con un misto tra pudore e viva, pungente, curiosità al mondo, alle cose, tra l’urgenza del dire e il timore di dire troppo. Del grandioso cantastorie di un tempo, della sua arte sopraffina di bussare alle porte segrete dell’io, rimane un pianismo di alta classe dispensato con passo rapsodico, torreggiante, capace di cercare, e di trovare, nelle pieghe di ogni frase, il senso dell’istante, la svolta che non ti aspetti, l’amore e il dolore, le braci e la cenere; l’incanto micidiale, l’avvincente trappola di quell’antica, trepidante anima narrativa, si sono nel frattempo asciugati ad un dire più disilluso, ad uno sguardo più umbratile, scarnificato, non di rado aspro, come se quelle stanze mille volte percorse, oggi non custodissero più per il dispensatore di racconti, la rivelazione ultima, il talismano che svela, e che salva.

Di quell’inarrivabile vena immaginifica è rimasto il nobile calco. Nel soliloquio tra il mugnaio e il mulino, ovvero tra l’uomo e il tempo, in Der Müller und der Bach, così come nell’amaro sguardo al paesaggio roccioso di Aufenthalt, specchio dell’anima dell’io narrante, non c’era indulgenza, lo sguardo oltre l’orizzonte visivo era solo il lampo di un’occhiata, e il canto acquatico di Auf dem Wasser zu singen si faceva largo, turbato, direttamente dalle pietre della pagina precedente, figlio della stessa rocciosa sostanza, in un viaggio che, abbandonata la stupefazione, pescava nel passato, nei recessi del cuore, nel repertorio delle emozioni, per trovare un malcerto istante di poesia e di conforto. E se in Die Stadt mai così attonito ci era risuonato il senso di smarrimento di fronte a quell’orizzonte vuoto, la sosta durava un attimo. Bisognava rimettersi in cammino. Correva anche l’arcolaio di Gretchen, inquieto sul pedale ossessivo, circolare, che consuma il canto, e con esso le speranze. Correva verso la morte. Ad attenderlo, c’era la selvaggia cavalcata notturna di Erlkὂnig, a spingere fino al limite delle sue possibilità il magnifico Bechstein, stordito da tanto barbarico sinfonismo. Ricordavamo uno Schubert di abissale bellezza; trent’anni dopo, quella bellezza ha assunto la maschera, per certi versi iperschubertiana, della smorfia amara, feroce, refrattaria a consolatorie illusioni. Una prospettiva, questa, da cui, cambiato di qualche accessorio l’abito timbrico, Babayan guardava anche al mondo di Schumann – una Widmung trionfalistica più che torrenziale, tronfia più che tracimante di giovanile, innocente ebbrezza – e di Liszt, nella cui filigrana occhieggiava, tra le altre, la presenza di Arcadi Volodos, qui nella veste acuto trascrittore di mondi.

Nella seconda parte di serata, ancora Komitas con i suoi haiku attinti dalla riecheggiante anima armena fatta di struggente melos snudato di ogni ricamo, lo sfuggente ermetismo di Mompou, con un avvincente quadrifoglio di tratto dalle Cançons i Danses, e una cascata di chicche arcinote – su tutte, Over the Rainbow di Arlen, rubata all’inarrivabile puntinismo di Keith Jarrett, e al suo altrettanto inarrivabile incanto di esecutore – ma anche acquerelli di matrice mediterranea, stesi con pennellate veloci e balenanti tratti di luce. Grieg e Sibelius come rare incursioni in un nord visionario anche quando fatto di piccole cose, e poi via, verso sud, prima nella Francia di Poulenc, Fauré e Reynolds, là dove abita la sensuale arte chansonnière a cavallo tra i due secoli, fino al bizzoso, gitaneggiante spirito andaluso di Albeniz. Di questo passo, scivolare nelle acidule, ammiccanti seduzioni jazzistiche di Gershwin, girando pagina da un secolo all’altro, da un universo all’altro, era un attimo. Applausi calorosi, ma nessun bis; dopo quasi due ore di musica, ordite con l’arte paziente e implacabile del miniaturista, Babayan si congedava. Una sola nota in più sarebbe stata di troppo.