Recensioni - Cultura e musica

Libri: Di tanti palpiti, le tante anime del melodramma italiano

Le storie dei protagonisti di ieri e di oggi del mondo della lirica raccontate da Elena Miglioli.

Una scatola magica. Costruita come una sceneggiatura in due atti aperta da un preludio e chiusa da un finale, intervallata da due intermezzi che separano il prima e il dopo di un’Italia a tante velocità, “Di tanti palpiti” – titolo rossiniano tratto da un verso di Tancredi – è una lettura, edita per i tipi di Gilgamesh, per molti aspetti necessaria, fatta di voci. Elena Miglioli le ha inseguite una ad una, consumandosi le scarpe in chissà quanti viaggi a cucire relazioni, a tessere con la pazienza del ragno la dolce ragnatela di una fiducia capace di vincere la resistenza e di catturare le parole in un abbraccio rispettoso.

Le voci del teatro, le anime della lirica. Prima ancora di essere un libro sull’inestimabile patrimonio del melodramma italiano condito dalla vicenda romanzata della giovane Flora – un nome, un destino - accompagnata dalla folgorazione per il melodramma fino all’istante del suo debutto a teatro, questa è una galleria di echi. Voci raccolte in presa diretta e poi infilate con l’ago magico del fiuto per il racconto. E pagina dopo pagina, a scorrere sotto le dita del lettore, in un percorso che, come il melodramma, avvince per densità, varietà di registri e bruschi cambi di scena, è qualcosa che assomiglia ad un distillato dell’italianità più autentica. Un museo di storia naturale della vocalità che la penna di Miglioli, stregata a sua volta dal mondo della lirica, spoglia del sotteso canovaccio di interviste e lascia scorrere nella traiettoria naturale di libere confessioni. Cantanti ma anche scenografi, registi e, dietro di loro, consorti, Maestri e maestranze. La miracolosa macchina del teatro vista dall’osservatorio di chi, da protagonista, si fa spettatore di sé stesso, squadernando la propria vicenda personale in ordine sparso, privilegiando i frammenti, i lampi e le ombre più incisivi.

Storie di trionfi e di dolore, di rinunce, fortune e rovesci. Ogni racconto è intinto in citazioni da opere, versi tratti da Traviata, Così fan tutte, Tosca, quei libretti che hanno saputo attraversare il tempo e i ceti sociali, giungendo sin delle osterie, nelle case, nelle stalle. Siamo un popolo di arie e di cabalette. Lì, in quel sentire, si annida la nostra radice più profonda, quella che in “Novecento”, il capolavoro di Bernardo Bertolucci – fa sì che la morte di Giuseppe Verdi colga come una fucilata il contadino che, intento al lavoro dei campi, sta fischiettando brani dal Rigoletto. E questa sequenza di magnifici cammei non poteva che aprirsi con l’eterno Leo Nucci, oltre 500 volte Rigoletto, e con il nastro della memoria srotolato fino agli esordi: la miseria, l’apprendistato in bottega, la passione bruciante per la bicicletta e per il canto, entrambi sogni fatti di fatica e di fiato, di continue salite e di vette da espugnare. Poi, la carriera, folgorante, fin da quella storica Luisa Miller al Covent Garden di Londra, con Pavarotti e Ricciarelli e Lorin Maazel sul podio. Con lui, presenza irrinunciabile, Adriana, moglie, musa e consigliera di una vita trascorsa nei teatri, prima in scena – memorabile per Rigoletto a Legnago, con lei, incinta, nei panni di una un po’ compromessa Gilda – e poi a fianco in ogni passo. Appunti di vita che la penna di Miglioli, maieuticamente, aiuta a sgorgare. Tanti registri, personalità, profili.

Ogni storia è, così cucita, la prima bozza di una sceneggiatura che, sviluppata, pulsa già di teatro. con i colori giusti, il passo della narrazione capace di assecondare il racconto, i giusti contrappunti di fili secondari – scene e controscene, aneddoti – che rendono ogni vicenda un ritratto da gustare. Anna Maria Chiuri, mezzosoprano statuario approdata nella propria pelle dopo una lunga gestazione come soprano. Fabio Armiliato, nella cui voce risuona, magnifica e struggente, quella oggi silenziosa della compianta Daniela Dessì, con cui ha condiviso indimenticabili anni di arte e vita. Ferruccio Villagrossi, catturato nei suoi ultimi mesi di vita nel suo ritiro mantovano straripante di cimeli raccolti in un’esistenza trascorsa a creare scene e costumi per l’incanto dell’opera. Fiorenza Cossotto, “la unica” per i media argentini, e Ugo Benelli, tenore “dall’oro in gola”, voci di un’Italia gloriosa, così come Bianca Maria Casoni, struggente Carmen e Azucena prima di ritirarsi dalle scene per dedicarsi, con irremovibile dedizione, alle gioie della famiglia e alla didattica. E Francesca Campogalliani, che dal suo osservatorio di bambina ha visto il padre Ettore plasmare, con l’inarrivabile capacità di distillare da ognuno la propria natura, le voci più grandi del Novecento. Freni, Pavarotti, Tebaldi, Protti, Bergonzi. Giovani promesse, allora, tutte in ossequioso pellegrinaggio nell’appartamento mantovano di via Speri. E ancora, approdando all’oggi che guarda già a domani, Carmen Gianattasio, Gianfranco Montresor, Giovanni Battista Parodi, Andrea Cigni. In questo libro di fotogrammi, tanti sono i fili intrecciati, i rimandi da vicenda a vicenda; come vasi comunicanti, storia chiama storia, e la sceneggiatura si fa grandioso affresco di amici e rivali, mentori e muse, con passato e presente che finiscono per compenetrarsi. La prefazione di Donato Renzetti e la postfazione di Antonio Juvarra fanno da prezioso suggello all’opera.