Recensioni - Cultura e musica

Lo Schumann di Cominati inaugura Mantova Musica

All'auditorium Monteverdi del Conservatorio l'applaudito concerto del pianista napoletano

Giocando con le immagini, viene da pensare che le altitudini, le traversate in solitaria, rappresentino per Roberto Cominati un’attrazione fatale, l’ineluttabile richiamo di chi non può fare a meno di sfidare le sirene della gravità: vedere il mondo dall’alto, in volo sugli aerei di linea, che ormai da anni pilota, così come, dall’infanzia, sulla tastiera del pianoforte, là dove il suo aplomb aristocratico nel tenere con apparente, distaccato dominio, le redini delle pagine più impervie, ne aveva rivelato la cifra singolare, atipica, portandolo, nel 1993, a trionfare – secondo italiano, quarant’anni dopo Sergio Perticaroli - il prestigioso Premio Busoni di Bolzano. Lo scorso 20 gennaio, in un affollato Auditorium Monteverdi del Conservatorio Campiani, il pianista napoletano è stato l’applaudito protagonista dell’inaugurazione ufficiale della Stagione 2024 di Mantova Musica, in un recital interamente schumanniano, breve ma straordinariamente denso.

In apertura, le otto Fantasie che abitano la raccolta di Kreisleriana op. 16 e, a seguire, la grandiosa Sonata op. 14, quel “Concert sans orchestre” dalla stesura tormentata che abbraccia l’intera arcata creativa del compositore, dall’irripetibile prima stagione fino al momento prima di imboccare, nel 1854, il baratro della follia, con il tuffo nelle fredde acque del Reno. Di quella travagliata gestazione, rimane lo slancio quasi utopistico di una scrittura che sembra polverizzare la materia fino a farne pura sostanza poetica, volo della mente, pescando da quella sola cordiera, un mondo affollato e drammaticamente teso, straripante di presenze, un mondo, insomma, di accecante potenza immaginifica, nonché di affilata, magistrale strumentalità. Non a caso, è raro ascoltarla nelle sale da concerto. All’interprete è richiesto di saper abbracciare, stanandoli ad arte, i mille fili di quel groviglio quasi inestricabile in cui episodio si somma ad episodio, voce a voce, in cui l’idea irrompe a scardinare il filo della narrazione, il ritmo -mobilissimo - continuamente oscilla, togliendo ogni residua certezza. Le sonorità grandiose e solenni del primo movimento, davvero degne di una compagine sinfonica a ranghi completi, che nell’Andantino centrale trovano la tinta sulfurea del tema prestato dall’amata Clara – il ritmo puntato, il loro alfabeto segreto - e subito trasfigurato in canto lacerante, appeso sul precipizio di un fondo cupo, nel movimento finale si fanno leggere, leggerissime, e la musica prende a vorticare in una danza febbrile, in una cavalcata folle, euforica e disperata, fino al suo ultimo fatale schianto.

In un accostamento che rendeva l’appuntamento prezioso già sulla carta, nella dichiarazione di intenti dell’impaginato, Cominati in un certo senso invitava gli ascoltatori ad addentrarsi con lui in un così complesso paesaggio emotivo attraverso il passaggio, quasi iniziatico, offerto dalle otto sfingi dell’op.16, che dell’affresco della Grosse Sonate è per molti versi illuminante sinopia. Un ottagono le cui facce si guardano e si richiamano, in un gioco di specchi di stupefacente omogeneità, che guarda al mondo letterario romantico, ad Hoffmann e alla sua penna visionaria da cui Schumann non smette di pescare e di travasare in musica mondi emotivi, atteggiamenti poetici fatti di cellule graffianti, apparizioni fantomatiche, volti e sagome affioranti da un fondale notturno. Si apre con la tracimante Ausserst bewegt della prima Fantasia e, in un susseguirsi di inesorabile tensione approda all’ultima, la più criptica, la più ermetica, che si congeda riportando il canto nel cono d’ombra del suo eterno mistero. Attraversare il bosco schumanniano, disseminato di canti fioriti tra radure mozzafiato e mille trappole tese, è un addentrarsi per sentieri tortuosi, ingannevoli, difficili da addomesticare tanto da poterli sentire familiari. Schumann segue strade tutte sue, spesso sovrapposte, molte volte intrecciate, e le dispone in una scrittura rompicapo che chiede all’esecutore di immaginare, più che l’esistente, il sotteso, e di suonare in una sorta di trance, quasi alla cieca, procedendo su un eterno crinale in cui ogni momento è in gioco l’osso del collo.

Ma chi è disposto a tanto ardimento, vede panorami che valgono la follia. In un percorso in cui nulla era scontato, Cominati – conducendo l’ascoltatore di stanza in stanza con la proverbiale, asciutta eleganza che ci aveva colpiti, ormai oltre trent’anni fa, quando lo scoprivamo, prova dopo prova, proprio al Busoni – ha affrontato con autorevolezza le tumultuose acque di questi due capolavori affini e reciprocamente ammiccanti, soffermandosi, quasi pudicamente, sulla soglia di quel coté visionario che la sua conduzione - compressa in una tensione che, più che dispiegare le dense trame, le infittiva - solo a tratti consentiva di scorgere. La linea del canto, un canto sempre nobile, lucidamente teso, araldico, dell’interprete partenopeo - anima di bronzo e punta vellutata, nitido senza concedersi l’abbandono della morbidezza – rischiava di soccombere, fagocitata nel turbinoso incalzare di una narrazione a denti stretti, che ne annebbiava le epifanie e ne strozzava il respiro. Quel respiro che, nella grandiosa architettura della Sonata, pareva prediligere il mordace all’immaginifico così come, nel fantasieren rapinoso e alato dell’op.16, lo sturmisch all’innig. Per questa serata inaugurale, suggellata da una trionfale Danza del Fuoco di de Falla, la meraviglia sempre catalizzante di un interprete di razza, alle prese con un volo avventuroso, a cui, a tratti, mancava l’irrinunciabile, scapricciata, ebbrezza della libertà.