Recensioni - Cultura e musica

Lodi: Il Quartetto di Cremona su sentieri viennesi

Mirabili esecuzioni di Webern, Mozart e Schubert al Teatro delle Vigne

Il programma, un concentrato di bellezza allo stato puro, prometteva grande musica già sulla carta, tanto da richiamare – a qualche giorno dall’atteso debutto della sua Bohème piacentina – l’eccellente presenza del grande Leo Nucci, per una volta dall’altra parte del palcoscenico. Ma a dire il vero, lo scorso 15 dicembre in Aula Magna del Liceo Verri di Lodi, all’ultimo appuntamento del 2019 con la Stagione Concertistica del Teatro alle Vigne, erano (eravamo) in tanti a salutare il ritorno in città del Quartetto di Cremona. Una formazione più volte applaudita dal pubblico nel corso delle passate edizioni: ed esecuzione dopo esecuzione, abbiamo imparato ad apprezzare – di una delle realtà cameristiche che oggi, a 20 anni dalla formazione, portano il marchio italiano nel mondo – la crescente omogeneità dei tratti, la convergenza di sguardo, l’intesa degna di quel superbo equilibrismo che è la dimensione del quartetto. Cristiano Gualco, Paolo Andreoli, Simone Gramaglia e Giovanni Scaglione hanno così dato vita ad un ennesimo sfoggio di perizia, camminando sul sentiero tutto viennese che, in retrospettiva, conduceva da Webern a Schubert, costellando per un tratto le divine geometrie mozartiane. Quasi un gioco di scatole cinesi, tra assonanze e divergenze che si aprivano sull’anno 1905 e sullo squarcio, ancora impregnato di dolcissima, bruciante nostalgia, del Langsamer Satz, ultima carezza ad un tempo ormai infranto ad opera di quello che di lì a poco avrebbe portato il tessuto musicale verso galassie ancora impensabili. Magnifica porta sull’universo timbrico di quattro archi intrecciati a doppio filo, attorcigliata su se stessa da un tema che, ossessivamente, riaffiora con la stanchezza del suo passo strascicato, la pagina weberniana rivelava da subito la cifra di un approccio insieme sobrio e carnale, asciutto verso (quasi inevitabili) abbandoni quanto generoso nella presa di suono, complice anche l’acustica iperreattiva della sala, nella quale è merce rara qualsiasi nota al di sotto del mezzoforte. La stessa angolazione, quasi si trattasse di una naturale germinazione scaturita proprio dal ventre sonoro weberniano, si riscontrava nella rustica, maliziosa innocenza in cui Mozart intinge il suo K 458 meglio noto come “La caccia”, che i quattro musicisti scolpivano con quella sicurezza di passo che talvolta finiva per ovattare la soave stupefazione di cui il Quartetto è disseminato: una predominante, sorvegliata uniformità nella quale le cangianti dimensioni di giocosa scoperta, di sorpresa, di libera, scapricciata leggerezza risultavano lievemente appiattite nella loro forza drammaturgica. La seconda parte del concerto vedeva torreggiare il Quartetto D.804 “Rosamunde” di Schubert, un autentico fiume dall’inarrestabile corso che, sin dal suo incipit – una melodia affiorante dall’inquieto, lontano mormorio – chiedeva ai quattro archi l’urgenza di dialogare con la quasi lacerante tensione emotiva che ne abita le pieghe, con gli spesso drammatici scarti d’umore che in una mesta danza cambiano di segno, trascolorando continuamente il discorso musicale verso acquatiche opalescenze, con la malcerta esuberanza di sapore ungherese che sembra farsi largo nel quarto movimento, lasciandosi alle spalle la sibillina autocitazione con cui Schubert, nel Menuetto, firma forse la più bella e ritrosa tra le sue creature. Impossibile non chiedere un ultimo ascolto, a concerto terminato: ecco, 250 dopo il suo passaggio da Lodi, diretto a Milano, il Mozart quattordicenne del celebre Quartetto che prende il nome proprio dalla città.