
Prezioso concerto del celebre controtenore accompagnato dall`ensemble La Lira di Orfeo
Sono pochi i concerti che, più che una sequenza più o meno avvincente di pagine, rappresentino per l’ascoltatore l’occasione di un viaggio nell’interiorità di un incontro umano ancor prima che musicale, quindi, di un sentire inaspettatamente assonante. E concerti di questa levatura difficilmente spengono la loro risonanza al calare del sipario; piuttosto continuano a lavorare nella memoria di chi c’era. Una di queste serate di grazia è stata sicuramente quella a cui il (numeroso) pubblico presente nell’Aula Magna del Liceo Verri di Lodi ha potuto assistere lo scorso lunedì 13 gennaio, quando – primo appuntamento del 2020 nel cartellone musicale delle Vigne – a salire sul palco di casa, è stata la classe sorgiva di Raffaele Pe. Quasi una prova generale della fitta tournée che, proprio a partire da questi giorni, impegnerà il magnifico controtenore lodigiano in una serie di date tra Milano, Roma e Malta. Un omaggio ancor più significativo, dunque, quello offerto da Pe e dai valorosi musicisti de La Lira di Orfeo, ancora una volta imprescindibili compagni di un viaggio che nell’assoluta complicità di intenti vede quel valore aggiunto riconosciuto anche dalla Critica italiana attraverso il prestigioso Premio Abbiati.
Sul leggio, non l’inanellarsi di disparate suggestioni ma, piuttosto, l’idea forte di un’esplorazione a tutto tondo della figura, celebre quanto per molti aspetti ancora oscura, di Giulio Cesare: personaggio paradigmatico di un potere aureo eppure già macerato delle ombre, delle screziature di una personalità complessa ed attuale, Cesare attraversa, con le sue imprese pubbliche ed i suoi tormenti privati, l’intera produzione operistica del XVII secolo, dove trova i maggiori autori pronti a scolpirne visionari ritratti. Con un’operazione di autentica riesumazione, Pe e compagni hanno quindi riportato alla luce una serie di pagine dal (quasi) oblio, facendone un damasco di rara preziosità.
Da Händel il trionfalistico ad Händel l’introspettivo, a disegnare un percorso spiraliforme che nessuno, al momento del congedo, era pronto ad interrompere, evocativo da subito, sin dalla Sinfonia da “Giulio Cesare in Egitto” che apriva il concerto e soprattutto dava il passo all’ascolto: pomposa ed opulenta, pronta tuttavia a sciogliersi in un pulsare vivo ed animato, tutto echi e risonanze. Quando, trascinata con sguardo acuto da Luca Giardini, La Lira di Orfeo incontrava poi la voce di Pe, l’ordito drammaturgico di quella galleria di pagine si elevava a plastica, umanissima rappresentazione dell’animo umano, scolpita con uno smalto vocale che permetteva al controtenore di governarne con statuaria bellezza anche le più segrete corde.
Un Settecento di chiaroscuri e di inattesi tesori, quello che, con un’autorevolezza ed una duttilità propria solo dei gradi interpreti, Pe srotolava dalla sua valigia, scoprendo ora la scrittura serrata ed incalzante del pugnace Giacomelli accanto a quella, più lieve e vaporosa, di Carlo Francesco Pollarolo, autore nel 1713 di una gemma inedita qui restituita alla doverosa attenzione. E ancora, prima di ritornare all’Händel principe sommo di un cenacolo di eccellenze, giungeva, veleggiante sulle increspate linee del suo canto mesto ed aulico, il Piccinni di “Spargi omai di dolce oblio”. Un incanto, suggellato da un ultimo volo: “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo.