Recensioni - Cultura e musica

Lodi: Un’alta lezione di camerismo al Teatro delle Vigne

La raffinatezza del Trio Gaon in un'eccellente escecuzione di musiche di Brahms e Ravel

Un’alta lezione di camerismo, ideale avvio di una Stagione Concertistica di fatto al suo secondo appuntamento ma che in realtà qui, nell’intimo conversare di tre voci così strettamente convergenti da annullarsi ed esaltarsi l’una nell’altra, trovava il più bello dei sipari. Lo scorso lunedì 18 novembre, in un Teatro alle Vigne in cui a compensare alcune defezioni – influenze di stagione, ma soprattutto serataccia di freddo e pioggia battente – era un’incoraggiante presenza di giovani in platea, a salire in cattedra sono stati il garbo, l’intensità, la minuziosa accuratezza del Trio Gaon. Trio con pianoforte nato nelle aule della Hochschule di Monaco e subito affermatosi in prestigiose competizioni internazionali, la formazione costituita da Jehye Lee al violino, Samuel Lutzker al violoncello e Tae-Hyung Kim al pianoforte sapeva catturare l’uditorio sin dall’apertura del brahmsiano Trio op. 87 che apriva l’itinerario di ascolto, contrapposto (quanto intimamente assonante) al Ravel del Trio in la minore. Ed immediatamente appariva chiara l’angolazione di lettura, quell’approccio che, tra i tanti riconoscimenti, è valso alla formazione il Premio dedicato al Trio di Trieste, insieme a quello istituito alla memoria del compianto Dario de Rosa, dello storico trio straordinario vertice pianistico: la circolarità del pensiero, la morbidezza di attacco del suono ed, ancor prima, la sartoriale cura della frase tanto da renderla fragrante, viva, irresistibile.

Occorrono dita forti e scalpello fine per levigare questa creatura fiorita nella stagione creativa di un Brahms ormai incamminato ad indagare, in misura esaltante e progressiva, il proprio piccolo mondo dentro ed attorno a sé. Un ripiegamento verso territori che sino a quel momento pulsavano segreti, all’ombra di costruzioni monumentali, e che ora diventano sempre più oggetto di indagine privilegiata del compositore. In questa appassionata restituzione, nulla mancava, e nulla era fuori posto: le smaglianti strumentalità individuali, pur capaci di affondare nelle rispettive cordiere a stanare improvvise vampate, non osavano rompere l’equilibrio di una resa senza spigoli né muscolarità, amabilmente conversativa proprio come lo sapeva essere l’universo ogni volta ricreato dai magici moschettieri del Trio di Trieste. E il secondo movimento dell’op.87, quel Terna con variazioni di sapore ungherese dal passo struggente, era un momento di assoluta bellezza; una bellezza interiorizzata ed amara, divorante e gelosamente custodita, ossessivamente trasmessa di mano in mano nel canto che sembra non trovare pace. Eccolo, il baricentro della serata: la nostalgia. Sottile e pungente, vicina e trepidante in Brahms, più indefinita e smarginata nei paesaggi disegnati da Ravel in quella pagina senza tempo che è il Trio in la minore. Nei suoi quattro movimenti ammiccanti al mondo antico e lontano, tra Passacaglie e ritmi indonesiani intinti in vaghe atmosfere basche, il mirabile equilibrio timbrico del Gaon disegnava perimetri esatti e giustamente nervosi, rimanendo sull’orlo di un’adesione interpretativa che, nello spirito guizzante del Pantoum centrale così come nella tinta dell’impetuoso movimento conclusivo, avrebbero forse necessitato di qualche azzardo in più. Per discrezione e per scelta, il Trio preferiva consegnarne una lettura cristallina, senza eccessi, naturalmente preziosa, come rivelava l’aristocratica Passacaglia a cui il violoncello regalava una luce dolente e lontana, asciutta senza vibrato, prima di consegnarla, ormai trepidante, al violino. Serata da incorniciare.