Recensioni - Cultura e musica

Lozakovich e Kantorow: una perfetta alchimia al Festival di Menton

Il precedente? “Capriccioso e leggero, pronto a prendere fuoco con vampate di estro puro”. L’ultimo? “Con una personalità fortissima, difficile da addomesticare, ma quando ti riconosce sa regalarti una commovente intensità e una plasticità di sfumature che non ho mai trovato altrove”. Daniel Lozakovich parla dei “suoi” Stradivari come di creature vive, interattive, da conquistare come si fa con un amore.  Ad affidarglieli sono le massime fondazioni internazionali: legno secolare da non far addormentare, materia immensamente fragile che sotto le sue dita rivela qualcosa che profuma di miracolo. Ventun anni, l’aristocrazia innata di un principe, la naturalezza di un talento cristallino, capace di sopravvivere al tritacarne mediatico che puntualmente accompagna il destino degli enfant prodige. Oggi il violinista nato a Stoccolma da madre kirghiza è lontano dal pur strabiliante spettacolo dei suoi inizi: il suo passo già alato lo ha portato a percorrere con consapevolezza e coraggio i sentieri di una voce poetica assolutamente rara, affondata in un dialogo con la corda che ne solletica l’umanità, la voce. Un canto sul fiato, spesso addentrato in pianissimi filiformi, reso con sovrana precisione, a costruire un suono dalla tinta antica, dalla pasta sottile ma corposa, rotonda, mai muscolare. Se chiudi gli occhi, la mente ti porta ai grandi del passato: arco affilato ed immensa signorilità; solo di quando in quando, in tanta olimpica levigatezza arriva il barbaglio di un’impercettibile intemperanza, di un fremito giovanile che tradisce, di questo cavallo di razza, l’innata voglia di scalpitare.

Lo scorso 6 agosto, nella magnifica cornice della terrazza a strapiombo sul mare dove da 73 anni il glorioso Festival di Menton ha il suo teatro en plein air, Lozakovich ha autenticamente stregato il pubblico che stipava il Parvis de St. Michel Archange, chiamando accanto a sé un degno comprimario quale Alexandre Kantorow. Star e zar, così è stato battezzato dopo la clamorosa vittoria nel 2019 al Concorso Čaikovskij di Mosca, il venticinquenne pianista francese è stato la carta decisiva per fare del concerto una serata di grazia. Un pianismo dalla strumentalità sontuosa ma sempre trattenuta in uno sguardo straordinariamente investigativo, analitico, alla ricerca di dettagli sommersi da portare alla luce. Un palombaro di bellezza al servizio di un camerismo serrato, implacabilmente incalzante. Dettagli da miniaturista capace di abbracciare, con quella lucidità che è di pochi, il frammento e il tutto, la tessera così come l’intera arcata del mosaico, la sua voce interiore. Due personalità straripanti che sin dall’iniziale Franck della Sonata in La maggiore hanno mostrato di intendersi a meraviglia e di saper ordire, in un gioco di complicità tesa, guizzante, irresistibilmente plastica, un racconto intrecciato a doppio filo, lirico e lussureggiante, in cui il canto del violino, la sua verginale stupefazione, trovava le cangianti opalescenze di un’intera orchestra in un solo pianoforte. Una lettura di trepidante intensità emotiva che, tuttavia, il rigore di un approccio sorvegliato metteva al riparo dai facili bollori di un virtuosismo gratuito e, invece, consentiva di cogliere, sul fondo, l’impianto austero, lo slancio lirico, la sottesa spiritualità, lievemente stemperata (e turbata) dall’ariosa svagatezza dell’ultimo movimento.

Dalle vette conquistate dopo la scalata di questa così difficile parete, i due fuoriclasse potevano godersi il cielo terso e l’amabile dolcezza che pervade l’op.100 di Brahms, sul filo della medesima tonalità; una serenità che non nascondeva ma, anzi, nobilitava le screziature espressive, gli scarti d’umore, i preziosismi discreti ed abissali che il pungolo di Kantorow andava a pescare, uno ad uno, per porgerli all’arco fatato di Lozakovich. E, un po’ per caso un po’ per scelta (nessun applauso, nessun accenno ad alzarsi per ringraziare da parte degli artisti), era magnifico l’innestarsi, sulle note di Brahms, della voce di Schumann il visionario, colui che nel giovane Johannes intravede il futuro della musica (e, forse, la salvifica proiezione di un sé ormai incamminato verso il regno delle ombre). La Sonata op.105 arrivava come un fiume in piena, nel groviglio doloroso delle sue linee, nel contrasto acceso delle sue tinte. Un mondo dentro l’altro, raccontato con imperiosa autorevolezza dalle folate iniziali fino alla cavalcata leggera e saettante – vertigine di bellezza e di classe – che, tra impeti ed improvvise malinconie, conclude l’opera. Un incontro al vertice tra due musicisti puri, generosi, straordinariamente consapevoli, capaci di esaltare le proprie ingombranti singolarità in un duo autentico, senza compromessi. Triplice congedo, di fronte ad un pubblico che non accennava ad andarsene. Il Brahms dello Scherzo dalla Sonata FAE, il Debussy di un commovente Clair de lune dalla Suite Bergamasque cantato per l’occasione dall’arco magico di Lozakovich (con Kantorow a fare da siderale tappeto sonoro) e una deliziosa miniatura di Čaikovskij.