Recensioni - Cultura e musica

Lucia off al teatro Lauro Rossi di Macerata

Protagonista Francesco Micheli

L’opera lirica ha fatto ormai il suo tempo? È un’esperienza conclusa, collocabile spazialmente e temporalmente in un preciso momento, che non parla più ai giovani, oppure essa tratta di tematiche universali utilizzando un linguaggio comune ancora condivisibile e che mai tramonta?

Queste le domande che si pone Francesco Micheli nella sua Lucia off presentata durante la seconda serata del Festiva al Teatro Lauro Rossi di Macerata, città in cui egli ha esercitato l’attività di direttore artistico dal 2012 al 2017 incidendo molto sul tessuto sociale e che ancora lo ama profondamente e lo ricorda con piacere.

Una personale rivisitazione della figura e dell’esperienza di Lucia di Lammermoor, a cavallo fra il romanzo di Walter Scott e la visione di Donizetti/Cammarano, la sua, che fa della passione per la lirica, della duttilità del linguaggio, della fisicità ardita del porsi nei confronti del pubblico, oltre che dell’ironia, le proprie carte vincenti.

Ecco che improvvisamente Lucia diviene una ragazza come tutte le altre, nostra contemporanea, una giovane che ha detto troppi sì ad una famiglia oppressiva, che si è sempre piegata al volere altrui rinunciando ogni volta al proprio, una che si libera dal ruolo di comprimaria divenendo finalmente protagonista solo attraverso la chiave della follia.

La magia dell’opera consiste proprio nel saper indagare le profondità di un cuore, ora dilatando i tempi dell’azione per scrutarla fino in fondo, ora accelerandoli per suggerire accennando, ma sempre attraverso la suggestione polisemica della musica.

L’attenzione del regista/mattatore si incentra ben presto, come è ovvio, sulla scena del matrimonio che una lettura attenta della partitura evidenzia subito come svuotato di sentimento, legato esclusivamente al problema del denaro e del potere, così ben rappresentato dalla figura quasi volgare dello sposo.

A seguire, invece, l’esperienza immaginaria delle nozze con Edgardo, vissuta dalla protagonista attraverso la propria insania, così esplicita, fatta di trilli che ricordano gemiti di piacere mai vissuti, che inteneriscono e fanno maledire le convenzioni di cui spesso le prime vittime risultano essere i giovani.

Un discorso fluido quello di Micheli che fa largo uso di espressioni dialettali bergamasche e marchigiane per rendere più efficace il suo approccio, facendo leva su quel nostro bilinguismo innato che in realtà è una vera e propria dichiarazione di appartenenza, la quale indica anche una visione particolare del mondo di cui ogni italiano di fatto va fiero.

L’opera dunque è viva, è fra noi, nelle canzoni di Rita Pavone come in certa cinematografia contemporanea, è ancora pulsante nelle nostre vene e può avere addirittura una funzione salvifica.

Bravo il protagonista della serata ad attrarre l’attenzione di un pubblico variegato che lo guarda estatico e sul finale gli tributa vere e proprie ovazioni, bravo nello spingere l’acceleratore fino a sfiorare l’eccesso, ma pronto a premere il freno proprio su quel confine senza mai scollinare, bravo nel rappresentare anche fisicamente un approccio carnale con il mondo della lirica la cui lettura oggi può risultare troppo spesso affidata a sterili intellettualismi. È il successo stesso di questa rovente serata di luglio a dargliene merito.