Recensioni - Cultura e musica

Magnifico concerto d'apertura della settimana dedicata al pianista Georgy Tchaidze ad Altidona

Memorabili esecuzioni di Bach, Schubert e Schumann

Un universo traboccante di bellezza e verità, così intimamente radicato nelle viscere e nelle ragioni della musica da spazzar via, con un colpo di spugna, molti degli ascolti di cui la nostra memoria è incrostata. Bastano poche battute per cadere nel sortilegio che ogni esecuzione di Georgy Tchaidze sa puntualmente ricreare, distante anni luce dalla galassia sovraffollata di bravi e bravissimi. Il suo pianoforte è un mondo sinfonico, un teatro di stringente, appassionata drammaturgia in cui nulla manca, e molto di non detto affiora dal fondo della pagina, a dire, ma soprattutto ad insinuare nell’ascoltatore, impedendogli di liberarsi facilmente da quella micidiale ragnatela, lasciandogli piuttosto il rovello del dubbio a perseguitarlo per giorni. Per noi, questo trentunenne dallo sguardo da combattente e dalle mani di poeta era stata la folgorante scoperta – una delle tante, di quella irripetibile e rimpianta stagione – all’edizione 2013 del Casalmaggiore International Festival, dove - ospite a sorpresa - aveva scolpito una Sonata op. 110 di Beethoven dai volumi michelangioleschi, che ancora oggi ricordiamo nota per nota. Subito avevamo compreso di trovarci di fronte ad un gigante dal talento straripante, quel talento già incoronato nel 2009, giovanissimo, all’Honens di Calgary e prossimo alla consacrazione, due anni più tardi, al Top of the World Competition di Tromsø, in Norvegia.

Lo scorso 1 dicembre, di fronte all’uditorio letteralmente rapito che affollava la Sala Colonna dell’Accademia Malibran di Altidona - feconda realtà marchigiana nata dalla caparbia volontà della cantante Rossella Marcantoni di costituire attorno ad un nucleo di amici un autentico cenacolo musicale, tra formazione e fruizione nel segno dell’eccellenza - Tchaidze ha dato vita ad un memorabile recital, inaugurando di fatto quella che, fino al prossimo 8 dicembre, sarà una settimana che lo vedrà protagonista nelle più svariate dimensioni: solista, camerista -  il 6 in duo pianistico con la moglie Nadedza Pisareva e l’8 in un concerto per pianoforte, violino e canto a fianco di Aldo Campagnari (secondo violino del magnifico Quartetto Prometeo) e della stessa Marcantoni – nonché docente di una masterclass dedicata a giovani promesse del pianoforte. Uno, nessuno, centomila, arcano incantatore di un viaggio che nel concerto della scorsa domenica si apriva sull’aulica bellezza dell’Adagio di Bach, sul suo contemplativo monologo sospeso e sfociante nell’immenso Schubert della Sonata “Fantasia” D 894; un approdo inevitabile, di elettiva assonanza, nel segno anche tonale di un’affabulazione chiamata a farsi largo tra silenzi avvolgenti, sin dagli accordi che, lentamente, muovono la monumentale arcata dell’incipit schubertiano verso ben più ampi orizzonti e distese. Pochi sanno traghettarne con altrettanta autorità di passo e di respiro l’ingombrante bellezza, risucchiati il più delle volte nelle sabbie mobili di una conduzione opaca in cui nulla di significativo pare accadere. Tchaidze, con lente impietosa, ne esplorava invece il fondale, il riverbero impercettibile di colori tono su tono, le linee interne di un narrare trepidante di un’emozione segreta, gelosamente trattenuta. E ne estraeva, con un legato da manuale, un abbacinante testamento umano, il ritratto senza filtri di un’anima buona e disperata: un ipnotico caleidoscopio emotivo in cui le laceranti dimensioni della voce schubertiana, quella dell’innocenza e del più nero furore, si andavano componendo e compenetrando, nel gioco tra accumuli e distensioni, lasciando intravedere in filigrana l’incombente presenza beethoveniana, intorbidita nelle sue spigolose geometrie dalle ombre di una coscienza  inquieta, mercuriale, continuamente tentata da mille divagazioni.  Il dettaglio, il frammento, il laser di autentici bagliori ad illuminare gli angoli più remoti dell’ordito schubertiano, e, al tempo, l’infallibile regia di un pensiero superiore che, come un vero ago magnetico, non perdeva neppure per un istante il nord della conduzione: riverberi, questi, di uno sguardo capace di cogliere, come pochi, l’incanto delle cose e di trasporlo, elevandolo, in pensiero.

Venivano alla mente le parole di Schumann, profetico indagatore del testamento schubertiano, quando scriveva, a proposito dell’ampia coda conclusiva: “Rimanga lontano dall’ultima parte chi non ha fantasia per scioglierne l’indovinello”. E, a proposito di enigmi cifrati da attraversare e da risolvere, la seconda parte del recital, dalle commoventi lande schubertiane faceva rotta verso quell’arazzo di visionaria, sovreccitata creatività quale è il Carnaval op. 9 di Schumann. Nella galleria di comparse che costituiscono il mosaico con cui, attraverso un altro ben più sottile messaggio cifrato, l’autore traspone in note le lettere della città di Asch a muta chiave d’accesso dall’intero edificio, scorreva un autentico incendio: un teatro dell’anima mai così dirompente, mai così spericolatamente, pericolosamente schumanniano nella tensione quasi insostenibile che ne abita la moltitudine di voci. Voci opposte e complementari, quelle di Florestano ed Eusebio, Chopin e Chiarina, Pantalone e Colombina e di tutti gli altri Fratelli di quella immaginaria Lega di Davide che, nella trionfale marcia finale, sconfiggono gli ottusi Filistei e che qui, in un’esecuzione da brivido, rilucevano, ancora umidi di inchiostro, ebbri di trionfalistica, pura fierezza. Di questo mondo poetico, Tchaidze esasperava le dicotomie, i continui vertiginosi scarti tra umoristico e sublime nell’evidente, romanticissimo tentativo di dare plasticità al delirio, all’utopia, spingendosi fino all’orlo del possibile, e sfidando non di rado l’impossibile. Tempi giustamente sbilenchi, oscillanti tra estatiche oasi contemplative e brusche, folli virate a gomito, in equilibrio, sottile e sempre periglioso, sul precipizio. Piccole scene protese sull’infinito.

Come nella Casalmaggiore adagiata in riva al Po, anche ad Altidona è passato un frammento di storia: un miracolo, l’ennesimo, in una terra di provincia.