Sold out per il recital pianistico di Éric le Sage a chiusura della mostra sul tema della metamorfosi
Dalla strada, la sagoma di Palazzo Te era un’incognita inghiottita nel buio, e per raggiungerlo occorreva indovinare l’imbocco del viale, facendosi largo tra una nebbia feroce che, dopo tante giornate di grazia, ci ricordava che siamo in inverno, nel cuore della pianura. Eppure, lo scorso 3 gennaio, per il recital pianistico di Éric le Sage, nella Sala dei Cavalli, non una sola poltrona, tra quelle che abbracciavano a semicerchio il pianoforte, era rimasta libera. Un bel segnale, per l’anteprima di Mantova Musica, qui nella ramificazione di Eterotopie, organizzata in collaborazione con la Fondazione palazzo Te. L’occasione, d’altronde, valeva l’azzardo di sfidare la serata cruda: un percorso a découpage nella Francia a cavallo tra XIX e XX secolo, nel doppio segno di Erik Satie e di Pablo Picasso, nell’anno in cui ricorre il centenario dalla morte del primo e, del secondo, le sale del Palazzo vedono chiudersi, oggi, una mostra incentrata sul tema della Metamorfosi. Amici ma soprattutto complici, intimamente affini, entrambi abitati dal demone di una natura sfuggente ed enigmatica e da un divorante senso di nostalgia esplicitato nelle multiformi declinazioni di una grazia bruciante e di un’artigliata corrosività.
Attorno a loro, risucchiati da quel sotteso magnete gravitavano, come monadi confluite nella stessa orbita temporale, i nomi di Fauré, Saint Saëns e Debussy, ovvero il patriarca, il maestoso e il visionario; generazioni diverse e contigue che, ognuno a modo proprio, avrebbero traghettato la fucina francese verso il definitivo sbarco nella contemporaneità. Al centro, incastonato in una spirale di pagine disposte per cicli spezzati, ad esaltare quell’idea di frammento, di cubista incompiutezza, stava Hivernale, cammeo di trasognata introversione inserito nella fortunata raccolta Le Rossignol éperdu e firmato in punta di fioretto da Reynaldo Hahn, meteora eclettica e inquieta di quel periodo irripetibile. Poche note, ed eccoci tutti catapultati tra stucchi e specchi di un salon fin de siècle, tra vapori e nuvole di fumo, catturati dal sapore volutamente rétro di una scrittura che fa dello sguardo retrospettivo, di vaghe istantanee color seppia, la sua cifra.
Mondi sideralmente distanti – a dispetto dell’apparenza - dall’essenziale, altrettanto filiforme grazia delle Gymnopedies, nature morte sul cui specchio d’acqua scorre, impercettibile, il battito d’ali del tempo, della vita, creature arcane come sfingi dall’inarrivabile garbo ritroso ma abitate, come rivelava soprattutto la seconda, da un temperamento mordace, ribelle, affiorante in arruffati riccioli di capricciose acciaccature, arenato nel soliloquio di lunari recitativi. E, ad esse speculari, le tre Gnossiennes che il programma vedeva sbriciolate qua e là, come foglie sparse di un giardino d’autunno, frammenti di un ordine che stava all’ascoltatore ricomporre. Su questo tappeto, con Hahn come affascinante spartiacque, introdotti dall’esitante nostalgia della Valse nonchalante di Saint Saëns, Fauré e Debussy si ritagliavano un’ampia nicchia nell’impaginato, il primo con il celebre Notturno in Re bemolle maggiore, sesto dell’op.63, ma soprattutto con il magnifico affresco dell’op.73, il secondo con il trittico della Prima Serie di Images. Da un lato, la solenne enunciazione di un Tema che, attraverso il tumultuoso avvicendarsi delle sue impervie Variazioni, esplicita il forte debito bachiano nel mirabile florilegio contrappuntistico che ne costituisce l’intelaiatura; dall’altro, la scapricciata, acquatica tavolozza debussiana, ipnotica nell’iniziale Reflets dans l’eau, immersa in un arcaicizzante tempo sospeso in Hommage à Rameau, e finalmente estrosa, scanzonata, nel perpetuum mobile che anima il conclusivo Mouvement.
Un itinerario avvincente ne quale Le Sage si muoveva attingendo dalla sua innata classe e contando su una familiarità di vecchia data - solida ma impolverata nella resa strumentale così come nella risoluzione ideativa - con queste pagine il cui intenso profumo finiva, così, per giungere solo quando ormai in parte evaporato. Nel percorso circolare da Satie a Satie, il pianista di Aix en Provence appariva infatti più attento a non smarrire le scivolose redini di una prudente conduzione che a scandagliare, con la piena libertà che solo uno sguardo cristallino consente, quel tessuto innervato di allusioni, iridescenze, tranelli che – nella loro diversità – queste pagine chiamavano ad esplorare. Il risultato, per lui e per noi con lui, era lo spettacolo, ammirato da lontano, da ciò che è consentito quando ci si arresta sulla soglia, di un fondale incantato in cui sarebbe stato magnifico immergersi e abbandonarsi.