Recensioni - Cultura e musica

Mantova: Con Piotr Anderszewski la musica torna nello scrigno del Bibiena

Una magistrale esecuzione del Clavicembalo ben temperato

La drammaturgia interna di quei miniaturistici universi di devozione e fantasia che il gioco supremo del pedale, l’architettura del fraseggio, il prisma iridescente dei colori plasmavano ad arte dando fiato e corpo al corso della frase, assecondandone passo e misura. Con un recital che non dimenticheremo facilmente, lo scorso 27 novembre Piotr Anderszewski riportava finalmente il pubblico mantovano di Tempo d’Orchestra nello scrigno del Bibiena per un viaggio nel cuore pulsante del magistero bachiano, attraverso dodici dei ventiquattro Preludi e Fughe del secondo Libro del Clavicembalo ben Temperato. Autore prediletto e riferimento continuo, quello del genio di Eisenach per il pianista polacco che nel corso della sua già lunga carriera già ne aveva più volte incrociato il destino, quasi a farne l’imprescindibile lente di una visione interpretativa mai scontata, tra le più acute e personali del panorama attuale.

Avevamo ascoltato il suo Bach anni fa: rigoroso, signorile, intriso di un’intensità già intimamente scintillante di intelligenza. Lo abbiamo ritrovato, uguale e diversissimo, l’altra sera, sempre magnifico nel tratteggio nelle arcate, nella sovrapposizione dei volumi, nel contrappunto tra pieni e vuoti, ma forte del valore aggiunto di un’urgenza nuova. Un Bach austero eppure danzante, immensamente libero, alato nel suo vertiginoso slancio speculativo. La nuda pietra del tema, pronunciato con pudica tenerezza, ed i rivoli segreti del suo fermentare generando a loro volta moltitudini di voci, di mondi, seguivano la ferrea logica di un disegno senza inutili sussulti eppure traboccante di sorpresa ad ogni svolta, ad ogni impercettibile trascolorare. Un labirinto che Anderszewski percorreva seguendo la matrice ideativa dei motti, la stella polare dei soggetti, nel dedalo di strade incrociate, a sottolineare la sublime perfezione di quella scrittura così vicina a Dio e che nelle sue mani, nel suo legato pulsante e vellutato, rivelava il versante laico del suo inarrivabile magistero. Voci flautate, rubate ai registri di un organo, e registri come personaggi, anime, vicende affollate e convergenti nell’ispirata umana commedia bachiana, che l’avvincente découpage di Anderszeswki esaltava nell’eco interna, sottesa, dei rimandi di tono e di affetto. Non per semitoni progressivi ma per assonanze emotive, per un rimbalzo di specchi che dal Do maggiore al Fa minore, dal La bemolle maggiore al Re diesis minore, dischiudevano il castello inatteso di una drammaturgia alternativa alla consueta sequenza.

Dopo la compassata ouverture del primo, la crepuscolare bellezza, il pathos, la grazia dolente del dodicesimo con il suo passo esitante, meditativo. Un pianista speculativo, Anderszewski, capace di far dimenticare, con il suo implacabile scandaglio, mezzi tecnici formidabili capaci di portare a galla dagli abissi l’altra faccia di questa musica: via il velo dell’accademismo e di una dattilografica digitalità, via il lezioso piglio strettamente didattico di frasi al metronomo. E largo ai tiranti di una logica cartesiana, scaldata al fuoco di un fantasieren acceso e spregiudicato fatto di frasi interiormente increspate da ondulazioni, riccioli, fremiti ritmici. Come il Preludio diciassettesimo, segretamente incalzante sotto le lievi tese del canto. E come la sua Fuga che arrivava da un mondo lontano, ovattata e camminante, progressivamente più aperta, svelata, imperativa. Come il pulviscolo turbato ed impercettibile del Preludio in Re diesis minore, tonalità lunare, astratta nel suo teatro di ombre e di geometrie arcane, da essere e non essere, e della Fuga, solenne, pronunciata a labbra socchiuse come una preghiera a mezza voce. E l’ottavo Preludio, splendido con il torrente placido che ne innerva il canto e ne muove la superficie prima di incontrare il marmoreo disegno della Fuga.

Dalla resina millenaria affiorava il depositato di una scrittura che anticipa, ricapitolandolo, ogni tempo. Il siderale ventunesimo, in Si bemolle minore, con la sua Fuga tutta esitazioni, silenzi, melanconie, nel gioco di mani che componeva la tela dei soggetti. Ed il Mi bemolle maggiore con suo cadenzato ritmo a siciliana, di atmosfera vagamente pastorale. Fino al ticchettio del Preludio in Sol minore, inquieto ed ossessivo, con il ribollire sottile delle quartine. Sul fondo di tanta ispirazione, faceva capolino l’onda lunga di chi avrebbe attinto a pene mani a quel mondo espressivo: su tutti, ad affiorare era, in filigrana, lo Schumann febbrile della prima ondata compositiva, quella degli Studi Sinfonici, con la loro lussureggiante bellezza fiorita addosso alle più solenni rovine bachiane. Più di un ascolto, un viaggio della mente, una passeggiata contemplativa tra preghiera e natura, tra ardite costruzioni ed i loro relitti: Jumièges, san Galgano, le abbazie nordiche degli scorci cari a Friedrich. Come a suggerire che nella materia, in quel fitto ordito di geometrie, è custodito il cosmos, l’ordine del mondo. Solo vincendone l’enigma l’uomo cammina verso la luce come suprema conquista: cogliendone la miracolosa perfezione dei suoi riflessi disseminati nelle cose, decifrandone l’alfabeto arcano. Erano un fiato solo, un respiro immensamente coeso, queste dodici creature vive e mercuriali, granitiche e palpitanti. Esercizi fiammeggianti del pensiero più ardito. Appalusi torrenziali.