Recensioni - Cultura e musica

Mantova: L'aristocratico pianismo di Michail Pletnev al Teatro Sociale

Per la stagione Tempo d'Orchestra un memorabile concerto su musiche di Brahms e Dvořák

Un fuoco fatuo; lava mugghiante, annidata sotto il freddo damasco di una superficie sonora piana, vaporosa, ieratica. Il recital con cui Michail Pletnev ha impreziosito, lo scorso 25 novembre al Teatro Sociale, il XXX cartellone mantovano di Tempo d’Orchestra è stato un connubio di magia e di dramma, di poesia purissima vista dal filtro opaco di uno sguardo retrospettivo. Miniature, come nel segno del leggendario pianista russo: questa volta, sul leggio erano i mondi intimamente convergenti di Brahms e di Dvořák; frammenti introversi e traboccanti, inanellati da un sorprendente filo rosso che Pletnev, con il legato che gli è proprio, con l’aristocrazia di un pianismo di rara capacità insinuativa dipanava in un canto lontanissimo, reminiscente, un fiore sull’abisso di una notte che, anche nella scelta del buio totale della sala, pareva avvolgere e inghiottirne l’eco. Annunciato da un’articolazione sommessa, da un’escursione appena percettibile del tasto, il remoto est brahmsiano occhieggiava misterioso, zigano, nella prima Rapsodia op. 79, e bussava alla nostra porta, annunciando lo Dvořák del primo Minuetto op. 28 in la bemolle, col suo gioco galante già presago della fine, già accarezzato dalla polvere. Bastavano questi assaggi per dire la caratura di questo viaggio decantato a mezza voce, in un teatro Sociale dolorosamente punteggiato di assenze: troppe infatti le poltrone vuote, troppi palchi deserti per una serata in cui, in una città sede di Conservatorio, nessuno avrebbe dovuto mancare.

Dvořák visto con gli occhi di Brahms, tirato a lucido nella bellezza della sua luce slava, sottilmente ruvida, dolcemente aspra, ma soprattutto riscoperto nella sorprendente ricchezza delle sue trame segrete, nell’eco dei suoi sguardi ingordi a cogliere il meglio di quanto fiorito attorno a lui, nel mondo di mezzo. Un’asciuttezza che non era solo l’approdo espressivo di uno strumentista immenso, ma che alludeva, ancor più, al continuo scavo sulla carne viva della pagina, a togliere, limare, rifinire, fino a lasciare la linea pura, il gesto primigenio. Nel gioco di incastri tra l’uno e l’altro – come a dire “chi è chi”? – la brahmsiana op.117 affiorava come un relitto, una sirena disarmata, dalle acque basaltiche di una manciata di Humoresque, in cui appariva chiara, al di là dell’omaggio esplicito del titolo, la filigrana schumanniana disegnata da Dvořák. Tutto, qui, anche le pagine più salottiere, assumeva l’aria di una riesumazione, di una rivisitazione dolorosa in cui la tensione, anziché librarsi, rimaneva prigioniera di un canto strozzato, quasi impassibile a vedersi se non fosse stato tradito dal mordace guizzare di qualche frase sfuggita dalla penna, dalla zampata felina sempre pronta a scattare. Un gesto, un lampo prima di ricomporsi, come suggerivano anche i commoventi Quadri Poetici, ultimo cammeo firmato dall’epigono Dvořák, acquerelli di luminosa bellezza attraversata da bagliori di penetrante sapore folclorico.