Il violinista greco ha inaugurati la stagione di Tempo d'Orchestra con Mendelssohn e Beethoven
È musica che scava un solco attorno a sé, quella racchiusa nei tre movimenti del Concerto in mi minore op. 64 per violino e orchestra di Mendelssohn. Un universo espressivo che imbriglia nelle sue rigorose maglie un bruciante virtuosismo e, con esso, l’incalzante, febbrile esaltazione di una fantasia smarginata. Un’architettura perfetta, un unico fiato privo di strappi e cesure che con filo sottile – la nota tenuta di un fagotto, l’indugio del violino solista - rammenda pannello e pannello, come a suggerire che dal viaggio non si esce, sino alla sua catartica conclusione. Lo scorso 21 ottobre, al Teatro Sociale di Mantova, non una sola poltrona, tra quelle disponibili nel rispetto delle misure anti Covid, risultava vuota per un’inaugurazione di gran lusso: un colpo d’occhio che aiuta timidamente a sperare in questi giorni in cui sulla musica, e con essa sulla vita, si spengono ancora una volta i riflettori. Sul fondo brumoso in cui Mendelssohn colloca l’orchestra - un brulicante mormorio ad evocare il sottobosco, oscuro e leggendario, dell’immaginario romantico – era infatti il violino supremo di Leonidas Kavakos a stagliarsi aureo, gigante di bellezza e di marmorea autorità, tra filati lunari e guizzi micidiali, a tessere ipnotiche linee di canto e di sopraffina oreficeria tecnica. Un monolite, un semidio; impossibile non rimanerne ammaliati.
Una lezione impartita da chi sembra nato con lo strumento in mano e sa condurre l’ascoltatore esattamente dove vuole, sul filo di un’intonazione sempre millesimale, di una pasta di suono insieme carnale ed impalpabile nel plasmare linee e volumi. Carlo Fabiano lo ha voluto a tutti i costi e lui, il gran greco dalla carriera internazionale, ha accettato, unica data italiana del suo tour. Ecco quindi, ad inanellare la Stagione 2020/2021 di Tempo d’Orchestra, una prima perla (chissà se e a quando, le altre) offerta all’affezionato pubblico, che alla fine dell’esibizione è letteralmente scoppiato in una pioggia di applausi. Nella doppia veste di direttore e di solista, Kavakos ha impresso al Concerto in mi minore un’impronta austera, asciugata dalle tentazioni di una ridondante fibrillazione; una visione negli intenti cameristica, intimamente raccolta, che la compagine virgiliana sapeva tradurre con quella duttilità e prontezza che sono sue peculiarità distintive, offrendo di fatto il tappeto ideale su cui il racconto dello strumento solista potesse snodarsi, già da quell’inizio in cui, in medias res, esso fa il suo ingresso, dettando il passo e la temperie all’intera pagina. Una mano tesa che Kavakos ha subito fatto propria anche se solo in parte, talvolta sfuggendo, da vero cavallo di razza, alle briglie di una conversazione alla pari e, con essa, alle intime sottigliezze di cui l’ordito mendelssohniano è pervaso. A mancare, in questa lettura intensa e scolpita con pregevole perizia, era talvolta il cielo, dove tutto confluisce e si compenetra: il fuoco leggero ed incalzante che brucia veloce, a folate subito pronte, nel secondo movimento, a farsi braci di canto appassionato e meditativo, prima di farsi corteggiare dall’impeto del vento che soffia, zingaresco e spiritato, sul terzo movimento. Una vampa che Kavakos teneva gelosamente a terra, custodita tra le mani di titano.
E, posato l’arco, eccolo alle prese con la Sinfonia Pastorale beethoveniana, con l’apollinea, ingannevole innocenza del suo labirinto nascosto sotto fronde di monumentale giardino fatato. Un percorso che, ancor prima del suo direttore, era l’Orchestra da Camera di Mantova - realtà di spicco in un fare musica dove l’artigianalità è il marchio di una cura certosina al dettaglio e all’insieme – ad attraversare con l’intima confidenza che si ha con un territorio familiare, facendosi largo nella microscopica tessitura fatta di apparente quiete ed orizzonti lenti a mutare, senza lasciarsi sommergere dalle seduzioni della “pittura in musica”, dalle sue sabbie mobili annidate sotto la trasparenza di un affresco che, come la celeberrima Tempesta di Giorgione, è filosofica meditazione sulla vita e monito sul tempo che fugge e che ritorna.