
Un racconto per musica e immagini che ha conquistato il pubblico del Teatro Bibiena
Il ghiaccio ha una voce. Un suono fatto di irriducibile lontananza, segreti, echi di vite che, come sottolineava Paolo Giordano, non sono la nostra. E sotto quel cristallo inquieto che pulsa, si trasforma, cambia pelle, c’è l’anima di un popolo magnifico e fragile. A metà tra racconto e documentario, cronaca e fiaba, “Lo sciamano di ghiaccio” – organizzato all’interno del Festivaletteratura da Eterotopie-Mantova Musica in occasione dei 500 anni dalla costruzione di Palazzo Te – ha tenuto letteralmente appeso al filo sottile del suo scorrere il pubblico che lo scorso venerdì affollava il Teatro Bibiena. Un racconto per sottrazione, immerso nelle suggestive musiche di Massimo Pupillo, che Guido Barbieri e Oscar Pizzo hanno letteralmente costruito nei mesi di permanenza in quella terra remota che è la Groenlandia, assemblandone, come erano soliti fare su pezzi di legno tascabili i primi navigatori, i frammenti, gli indizi, le tracce fino ad ottenerne una mappa, provvisoria e sfuggente, come lo possono essere le mappe scritte sull’acqua.
A torreggiare era una natura crudele e gloriosa che lo sguardo di Piergiorgio Casotti, coadiuvato da regia, luci e scene di Fabio Cherstich, svelava lentamente, accompagnando lo spettatore attraverso l’incanto e lo sgomento che essa incute. Orizzonti sconfinati, cieli plumbei, vento che frusta la terra e fa sembrare ancor più desolate le poche case che affiorano da quel tappeto uniforme. In questo affresco sospeso, il canto aspro e dolcissimo di Karina Moeller, intensa custode del patrimonio musicale tradizionale inuit, si fondeva letteralmente con i flauti erranti di Manuel Zurria e con la tastiera dello stesso Pizzo in un racconto atavico, minerale, a cui il ghiaccio aveva asciugato le parole polverizzandole in lamenti, rantoli, cantilene. Così, con il silenzio, si difende il popolo inuit, poco più di cinquantamila persone in un territorio grande sette volte l’Italia, popolo gentile e pacifico, profondamente libero, minacciato, oggi ancor più di ieri, dalle congiunture politiche e ambientali, oltre che da una crisi generazionale che ne ha spezzato l’incanto. “Non potete capire, non potete capirci”, dice Kisser a chi le chiede di svelare l’essenza della sua gente. “Per comprenderci occorre vivere con noi, condividere”. Come, da mezzo secolo, continua a fare l’altoatesino Robert Peroni, appassionata sentinella di una società che rischia di soccombere sotto la falce di un mondo in cui non c’è spazio per i disarmati. Piccole comunità raccolte attorno ad una chiesa, ad una scuola, ad un cimitero, ad un supermercato in cui si vendono mele insieme ad armi da caccia.
Un campetto da calcio esibito come un gioiello. Attorno, container, carcasse di auto e di barche, relitti imprigionati nel gelo artico. Qui l’animale è preda ma è anche intimo alleato. Lo diceva il fremere impaziente dei cani da slitta, in attesa del segnale che desse il via alla folle corsa. La natura estrema non è nemica ma presenza a cui parlare, forza con cui saldare un patto scritto nel ghiaccio. Quella crosta oggi si sta assottigliando. I pochi giovani stanno perdendo l’orientamento, irretiti dalla tecnologia, dal progresso che soffia dai social, dalla deriva dell’alcolismo. Eppure, nell’aria, la voce dello sciamano c’è ancora. Sommessa, arcana. Volteggia nel cielo notturno, nel baluginare fatato di rifrazioni luminose. Lo sciamano non teme predatori. La sua anima è imprendibile, mutevole e libera, come ghiaccio.